martedì 13 ottobre 2009

L'Europa per la pace

Oggi è stato il giorno dell'Europa, e abbiamo assistito ad una conferenza a Gerusalemme Ovest, con ospiti da Italia, Francia e Spagna.

L'idea che ne è emersa è la necessità dell'Europa di fare concretamente qualcosa per la Pace in Medio-Oriente. Pechè finora ci sono state solo parole. Nulla di più.

È proprio questo ciò che mi ha colpito, perchè ho percepito come ci sia una grandissima voglia di fare oltre che di dire. Come vada crescendo una maggiore consapevolezza del ruolo dell'Europa, che potrebbe anche essere risolutivo per il conflitto.

E riguardo a questo continua ad ossessionarmi un momento che ho vissuto qui: la conversazion che ho avuto nel campo profughi con un vecchio. Mi ero allontanato un attimo dal gruppo e ho iniziato a parlarci. Era seduto su di una sedia, e sdentato. Parlava molto poco inglese, ma è riucito a farsi capire. Mi ha preso la mano con una forza che non mi sarei mai aspettato, me la stringeva e ripeteva “you are incredible”, “you are incredible”. Poi mi ha spiegato. Secondo lui ero incredibile perchè sono italiano, è convinto che noi venendo lì avremmo aiutato a ritrovare la Pace. Lui crede in noi Europei, sa che abbiamo le possibilità di aiutarlo. Spero proprio di non deluderlo.

Ilo Steffenoni

LE CHIAVI DEL '48



Più di 400 i partecipanti a Time of responsabilities, l’iniziativa della Tavola della pace in Palestina-Isarele. Nella prima giornata ci siamo suddivisi in gruppi per andare a incontrare, ascoltare, vedere. La vergogna del muro che stringe d’assedio e rende invivibile anche la vita di Betlemme, il campo profughi di Aida (lo stesso visitato dal Papa qualche mese fa), tante famiglie che ci ospitano per il pranzo.
Le famiglie del campo profughi, come una reliquia, conservano devotamente la chiave della casa che hanno dovuto abbandonare nel '48 per far spazio agli israeliani. Molte di quelle case non esistono più ma loro stringono quella chiave come segno di un passato lontano e di un diritto violato. Di un futuro al quale nessuno deve sottrarsi: il tempo delle responsabilità, appunto. AbdelFattah, direttore del centro culturale del campo, ci dice in faccia senza mezzi termini: “Il silenzio della comunità internazionale è una vera e propria complicità che spinge a volte alla violenza. La vera sfida è restare umani in queste condizioni disumane”. Ma non possono permettersi il lusso della disperazione. “Temiamo il giorno – continua AbdelFattah - in cui i nostri figli ci chiederanno: “Cosa avete fatto per noi?”.
Quella stessa domanda è rivolta a ciascuno di noi e per questo siamo nel “tempo delle responsabilità”.

Tonio dell'Olio (Libera)

LA MEMORIA DI GIAFFA

I turisti non se ne accorgono. Passano rapidamente lungo Pasteur street, per salire fino alla cima della vecchia Giaffa, nell’angolo meridionale della costa di Tel Aviv.
Se proseguissero su Yaffet street potrebbero notare una porticina e una scala stretta, appena dopo una tavola calda che sforna felafel e hummus. Oltre la porta, una scala stretta e ripida porta alla sede della Lega dei arabi di Giaffa, la Rabitah. È il municipio ufficioso che cerca di risolvere i problemi dei ventimila arabi, cittadini israeliani, che vivono a Giaffa e sono tutto ciò che resta di una delle più colte, attive, cosmopolite e vibrati comunità urbane del Medio Oriente. Prima del 1948, della Nakba e della guerra seguita alla dichiarazione di indipendenza dello stato di Israele, Giaffa era la porta della Palestina del mandato britannico. Nel suo porto arrivavano anche le navi degli ebrei. Ancor prima del mandato, era, assieme ad Alessandria d’Egitto e Tiro, uno dei porti per antonomasia del Medio Oriente. Al municipio della città araba di Giaffa chiesero il permesso le sessanta famiglie ebree che nel 1908 fondarono, in un canalone tra le dune di sabbia, Tel Aviv. Oggi quel canalone è viale Dizengoff, una delle strade centrali di Tel Aviv, e la Giaffa araba non è che l’ombra di se stessa.
La memoria di Giaffa ha un nome, Gabi Sabed. Nel 1948 la sua fu una delle famiglie che non lasciarono la città allo scoppio di quella che per Israele è la guerra d’indipendenza, e per i palestinesi è la Nakba. Dei 120 mila abitanti, ne rimasero 3900 che furono ammassati dai vincitori in una zona della città sulla sinistra di quella che oggi è Yaffet street e che allora era una recinzione senza nome. Confiscate dallo stato israeliano le proprietà di quelli che erano andati via, agli arabi di Giaffa non rimase che ripartire da zero, come una minoranza. Dove furono ammassati i profughi, c’è ora il quartiere di Ajami. E Gabi, 58 anni di cui 40 investiti a organizzare la sua comunità, ne parla con la mente rivolta al passato per progettare un futuro possibile.
Nella sede della Rabitah ad ascoltarlo ci sono una quarantina di persone, un decimo della delegazione italiana che ha risposto all’appello della Tavola della pace e del Coordinamento enti locali per la pace per passare una settimana tra Israele e Palestina. Per ascoltare e capire. È la delegazione di Tempo per le responsabilità, la forma che quest’anno ha assunto la marcia per la pace da Perugia ad Assisi. Altre nove delegazioni simili sono in giro per incontri con ogni tipo di organizzazioni sociali e istituzionali israeliane e palestinesi, dagli enti locali ai movimenti pacifisti, dai sindacati alle Ong.
Gabi racconta che dopo il 1948, non c’era un solo arabo iscritto alle scuole superiori di Giaffa. Ci vollero gli anni sessanta per vedere degli studenti arabi nelle scuole superiori e la metà degli anni settanta per avere i primi laureati. Lui è stato uno di loro. Dalla volontà di non perdere la propria identità di arabi, nello stato di Israele, Gabi assieme ad altri suoi coetanei ha fondato nel 1979 la Rabitah. Alle ultime elezioni amministrative di Tel Aviv, la Rabitah è riuscita a vincere anche un seggio, su 31, nel consiglio comunale e oggi è una realtà istituzionale capace di gestire anche una scuola, la Scuola democratica araba. È l’istruzione il tasto su cui Gabi batte di più: «Il 50 per cento dei bambini e dei ragazzi arabi di Giaffa va nelle scuole pubbliche arabe – dice – il 35 per cento nelle scuole private di ispirazione religiosa, il 15 nelle scuole pubbliche ebraiche. Il problema è che nelle scuole religiose si accentuano le divisioni interne alla comunità araba, tra musulmani e cristiani e tra cristiani cattolici, ortodossi, protestanti o maroniti, mentre il livello delle scuole pubbliche arabe è molto basso, perché sono sottofinanziate dallo stato. In quelle ebraiche, poi, i ragazzi subiscono una narrazione della storia che è completamente diversa da quella che vivono a casa, perdono la lingua e la loro identità». Per questo la Rabitah, da cinque anni, ha la sua scuola, in cui i due aggettivi, araba e democratica, indicano un’intenzione pedagogica ben precisa.
La Rabitah si occupa anche di cercare di frenare l’esodo degli arabi da Giaffa, che continua sotto altre spinte: «La Nakba non è finita nel 1948. Allora, l’espulsione degli abitanti veniva fatta con la forza, oggi con il denaro». Giaffa infatti vive un periodo di riqualificazione edilizia, di gentrification: i costi salgono, le tasse anche e gli arabi, per il 50 per cento al di sotto della soglia di povertà, non possono più permettersi di vivere lì. La Rabitah è riuscita a salvare dalla demolizione molte case arabe, che avrebbero dovuto far posto ai nuovi edifici previsti dal comune di Tel Aviv per «lanciare» Giaffa anche come attrazione turistica, ed è riuscita anche a far costruire 250 nuove case per gli arabi, districandosi nella burocrazia israeliana, ritagliata in modo da discriminare gli arabi, che pure sono formalmente cittadini: «Per un arabo è molto più difficile avere un mutuo da una banca – spiega Gabi – e poi ci sono una serie di facilitazioni nel lavoro per chi ha fatto il servizio militare. Ma noi non possiamo e non vogliamo fare il servizio militare».
Sono solo due dei tanti ostacoli legali che rendono difficile la vita degli arabi cittadini israeliani, una minoranza che arriva al 20 per cento della popolazione di Israele.
La Rabitah cerca di rispondere con l’organizzazione dal basso per tenere viva la comunità: corsi di formazione per i giovani [il 50 per cento degli arabi di Giaffa ha meno di 18 anni], restauro delle moschee [le chiese ricevono fondi dall’estero] e lavoro di lobbying politico, per cercare di rimuovere gli ostacoli formali alla piena cittadinanza.
Sembrano, a sentirli elencare così, i problemi di una qualsiasi periferia depressa delle metropoli occidentali. Se non fosse che dalle finestre ad arco della sede della Rabitah filtra una luce diversa, una sfumatura che c’è solo da questa parte del Mediterraneo.
Fadi Shmeta è, in un certo senso, il prodotto del lavoro di Gabi. Giovane, cordiale, fa parte del direttivo dell’associazione Sadaka Reut, Arab jewish youth partnership, che ha la sua sede principale a Giaffa. Con una serie di vecchie foto della Giaffa prima della Nakba, Fadi racconta il quartiere di Ajami e spiega come, al di là delle responsabilità politiche dei governi nella guerra del 1948, la trasformazione di Giaffa in un’appendice di Tel Aviv sia avvenuta dopo la guerra: «La combinazione della legge sull’emigrazione, che prevede che solo gli ebrei possano emigrare in Israele, e quella della proprietà di chi è andato via dal paese hanno fatto sì che Giaffa cambiasse totalmente faccia». Degli agrumeti di un tempo, che davano lavoro a migliaia di persone, non resta nulla se non qualche albero ornamentale. Nulla resta del vecchio teatro, che aveva ospitato anche compagnie europee ed era uno degli occhi dell’elite culturale di Giaffa sul resto del mondo. Non resta nulla della vita culturale della città araba, se non una tipografia aperta dalla Rabitah. Di nuovo, invece, c’è la volontà di affermare un’identità complessa, che non si limita a contemplare le foto in bianco e nero per sognare «un tempo che non tornerà», ma guarda alla sfida di costruire, in Israele e anche con gli israeliani che accettano di farlo, un’identità nuova, da cittadini di uno stato che si percepisce come democratico ma di fatto e di diritto discrimina un’ampia fetta della sua popolazione. «Il nostro lavoro è innanzi tutto con le scuole – spiega mentre conduce la delegazione tra le case di Ajami – cerchiamo di portare una pedagogia critica che provi a decostruire la narrazione dominante sul 1948 e sulla realtà odierna di Israele per rafforzare invece la narrazione araba. Riequilibrando le due narrazioni, si può iniziare a ridare fiducia e capacità ai giovani arabi che saranno il futuro di Giaffa». È un futuro ancora lontano, faticoso perfino da pensare. Ma con solide radici in una memoria che riaffiora in ogni angolo di strada come in ogni frase di Gabi Abed.

Enzo Mangini (Carta)

Il diritto all’istruzione in Medio Oriente attraverso le voci degli universitari palestinesi e israeliani


Due tappe della Missione di pace in Medio Oriente hanno dato il quadro di quanto accade all’interno delle Università. Domenica 11 ottobre, un gruppo dei quattrocento italiani partecipanti al progetto Time For Resposibilities si sono diretti a Birzeit, presso il College, ed hanno ascoltato le voci degli studenti. Un edificio dalla struttura semplice, banchi scolastici, mura linde, tanti padiglioni, molte aule. Raccoglie otto Facoltà: ingegneria meccanica ed architettura, scienze, commercio, discipline umanistiche, legge che è la più recente, informatica, infermieristica. Sono attivi circa ventidue master. Attualmente è frequentata da 8.800 studenti, il 57% sono donne.

Questa Università di Birzeit svolge un ruolo sociale, raduna infatti undici istituzioni e organizzazioni. Ad illustrarla è stato Yassi Darwish, il coordinatore della comunicazione ed ha raccontato così la sua storia: “Non voglio parlare di quanto è accaduto a causa dell’occupazione, parlerò della mia esperienza: questa Università è stata chiusa per 15 volte dai militari israeliani. La chiusura più lunga è avvenuta tra il 1988 e il 1992, anni in cui ero matricola ed ho dovuto sospendere gli studi per 4 anni. Non c’è libertà di informazione, ma soprattutto non c’è libertà di movimento. La situazione è stata grave tra il 2000 e il 2003. Ai checkpoint gli studenti erano puniti collettivamente perché è stato considerato illegale unirsi in associazioni studentesche. L’obiettivo era fare un attacco al diritto all’istruzione. Negli anni ’80 c’erano studenti stranieri, adesso sono pochissimi. Oltre il 30% alloggia nel college perché uscendo dalla città rischia di non potervi rientrare. Per questo anno scolastico su 4000 studenti ne sono stati accettati solo 1500”. Le testimonianze dei ragazzi dell’Università hanno fatto emergere quanto sia difficile studiare e avere l’opportunità di radunarsi in associazioni studentesche perché vengono considerate azioni politiche e non sociali: “Spesso ci sono state incursioni all’interno del college da parte dei soldati israeliani, ci hanno perquisiti e “violentati” non solo a libello fisico, ma psicologico. Israele ha diritto di mandare qui i propri militari e se il documento ci viene timbrato non possiamo più muoverci. Ci dicono che si tratta di sicurezza, e quando non possono accedere all’interno dell’Università ci sparano dalla recinzione (con proiettili di metallo rivestiti di gomma) sparando gas lacrimogeni”. Dal 2004 è stato negato agli studenti di Gaza di frequentare il College di Birzeit, quelli che già erano all’Università non sono più potuti tornare nella loro terra; alcuni sono qui, altri si sono laureati, altri ancora erano stati nascosti dai cittadini di Birzeit e sono stati cercati e arrestati, poi riportati definitivamente a Gaza. Dopo l’occupazione è cambiata la condizione demografica. Gli studenti di Gerusalemme sono diminuiti. Gli studenti internazionali, così come gli insegnati sono diminuiti, non riescono ad avere il visto, vanno e vengono ogni sei mesi e spesso non tornano.

Attualmente, racconta Anon Quzmar, ci sono 88 studenti tenuti in custodia illegalmente. 24 sono stati condannati. 8 ancora stanno scontando una pena. La sentenza che reputa illegali le associazioni studentesche è frutto di una legge coloniale inglese. A causa di essa il palestinese che ha passato più tempo in stato di arresto è un ragazzo ancora detenuto da undici anni. L’ultima moda dei soldati israeliani e quella di non restituire, dopo l’arresto, la carta d’indentità verde palestinese ed essere rilasciati a Hebron dove poi si devono attraversare troppi checkpoint, mettendo a rischio la vita dei ragazzi”.

Quello che si respira a Birzeit, nel College, tra i giovani è una forte determinazione, voglia di non rinunciare al diritto allo studio, e speranza di rinascita: lo dimostrano i sacrifici che quotidianamente gli studenti sono disposti a fare per poter andare a frequentare le lezioni.
Ieri lunedì 12 ottobre, una delegazione di oltre 50 persone ha potuto visitare la più grande Università di Sderot. E’ un edificio periferico, curato, all’avanguardia, con banchi ampi, sedie piegabili e comode. Con Eric Yellin, Presidente di The Other Voice, e Julia Chaitin, del Social Work Department che hanno fatto da guide è emerso quanto sia frequentato questo college. Sono nate associazioni per la pace e ci sono regole differenti rispetto agli altri luoghi di studio. Sono due le possibilità per superare gli esami finali. Julia Chaitin ha spiegato: “Da parte palestinese c’è stato un boicottaggio culturale nei confronti dei nostri piani di ricerca. Stiamo organizzando una conferenza con palestinesi e israeliani per capire come possiamo insieme creare un percorso di ricerca e studio. L’obiettivo non è solo fare ricerca, ma anche lavorare accanto a Ong e accanto alle famiglie delle vittime. Il muro è invisibile per noi israeliani, i palestinesi lo vedono e lo vivono come un limite. Gli ebrei sono stati abituati a vivere nei ghetti, dunque, percepite il muro come una forma di sicurezza può essere normale, e la sicurezza non è tanto quella fisica quanto quella psicologica. Il muro per gli ebrei israeliani è invisibile come lo sono i palestinesi; questo accade quando due popoli non si riconoscono, dunque diventano invisibili e si vedono solo gli stereotipi”.

Un dato rilevante emerso dalle testimonianze all’interno dell’Università di Sderot è che la teoria predominante mette al centro la politica, è dappertutto, non si può scindere dal personale “Quando la gente incontra l’altra gente dovrebbe essere felice, dovrebbe andare d’accordo a pelle; ma le questioni politiche sono predominanti- ha continuato la referente del Social Work Department -. Sono comunque dell’idea che si deve parlare per fare la pace e si può realizzare solo insieme e con il dialogo”.



Floriana Lenti

LA PALESE MALVAGITA'



Haifa - Malvagità è il sentimento che pervade di fronte alle assurde, disumane condizioni in cui sono costretti a vivere i cittadini palestinesi della Cisgiordania. Malvagità praticata da oltre 60 anni da tutti i governi che si sono susseguiti (laburisti o conservatori) alla guida dello stato di Israele. Non si tratta di un giudizio affrettato o dettato dall'emotività dopo due giorni di permanenza in questa martoriata zona del Medio Oriente, ma di una constatazione sulla base di quanto abbiamo visto e sentito non solo da parte di palestinesi ma anche di israeliani di origine ebraica che, sia pure in una condizione di infima minoranza, si battono per i diritti umani nella loro terra.
Anna Zafran l'abbiamo incontrata nel Mossawa Center, il centro assistenziale legale del popolo palestinese qui ad Haifa. Da tanti anni, la Zafran si occupa del processo di pace che per lei ebrea è con la solidarietà il tema principale del suo impegno civile e morale. Fa parte del gruppo delle Donne in nero, e ogni venerdì mattina con una cinquantina di altre donne «con il caldo o con il freddo – ci dice Anna – ci troviamo nella piazza principale della città per testimoniare contro ogni forma di violenza e per la difesa dei diritti della minoranza araba. Ci è difficile avere prospettive, abbiamo un governo che non vuole la pace».
Questa donna coraggiosa non ha peli sulla lingua. Ci ricorda che nel 1967, con la guerra dei Sei giorni, e dopo gli accordi di Oslo del 1993 i governi hanno sempre agito di fatto contro un reale processo di pace. Il problema Palestina è sorto nel 1948. «Tutto vero – continua Anna – la tragedia ebraica, la nostra tragedia, non poteva e non doveva essere scaricata come responsabilità sulle spalle dei Palestinesi. Loro non hanno colpe di quanto successo prima e oggi attraverso i grandi mezzi di comunicazione come la televisione si continua ogni giorno a diffondere una cultura razzista. È facile odiare» conclude Anna con un tono di voce molto forte e angosciato. Diventa fondamentale per le donne in nero e per il movimento pacifista ebraico-israeliano parlare con la gente, condannando il razzismo e svolgendo anche piccole gesti di solidarietà come quello di accompagnare tutti i martedì due bambini dalla Cisgiordania all'ospedale di Haifa. Da venti anni lavorano ad esempio ad aiutare i palestinesi a raccogliere le olive oppure a pulire la spiaggia che loro frequentano. «Tutto questo avviene mentre nello stesso tempo il nostro governo fa cose terribili, come mandare i bulldozer a spianare le case degli arabi. Persone come noi vogliono risultati concreti. La soluzione del problema non è nelle nostre mani, la storia però è speranza: dopo otto disastrosi anni di amministrazione Bush, oggi Obama ha promesso di cambiare. Non sappiamo però quanti dei suoi propositi riuscirà a realizzare poiché le relazioni Usa-Israele sono molto profonde. Per raggiungere la pace dobbiamo impegnarci tutti su due fronti: da un lato sostenere persone, associazioni, villaggi, movimenti che lottano per l'integrazione. Dall'altra fare pressioni sui governi, e in particolare sull'Europa perché smettano di trattare Israele come un bambino viziato e lo richiamino alle sue responsabilità: il nostro non deve essere uno stato ebraico. Purtroppo la sinistra da noi è pressochè inesistente, 4 sono i parlamentari su 120».
Dal Mossawa center ci spostiamo in municipio per incontrare due consiglieri: Edna Toledano Zaretsky, indipendente di sinistra in una lista del partito Comunista che raggruppava arabi e israeliani nonché presidente della commissione Welfare, e con Schel Galpark, architetto e consigliere per i Verdi. Haifa è la terza città di Israele, ha 260.000 abitanti ed è un ricco centro industriale oltreché il più importante porto dello Stato. «Esistono due quartieri arabi – spiega Galpark – e tentiamo una ristrutturazione e non una demolizione. La parte davanti al porto è stata evacuata con la forza nei momenti difficili della guerra con il Libano nel 1982. Oggi è totalmente abbandonata e l'assurdo è che tutto attorno si sono costruiti nuovi palazzi governativi». È infatti impressionante girare per le strade di questa zona e vedere edifici anche di grande pregio architettonico ridotti a ruderi, quasi si volesse farli assurgere a simboli della disfatta palestinese e della malvagità.
Edna Zaretsky sottolinea il valore della lotta unitaria tra arabi ed ebrei sui temi sociali, soprattutto per quanto riguarda l'organizzazione sanitaria: il 10% della popolazione di Haifa è araba ma le scuole pubbliche mantengono la divisione tra arabi ed ebrei e quelle private sono particolarmente legate alle varie chiese. Il sindaco è un ex laburista passato a Kadima, il partito centrista guidato da Tzipi Livni: su 31 consiglieri, 9 sono all'opposizione, la maggioranza raggruppa vari schieramenti che vanno dal centro sino alla sinistra, fortemente minoritaria come forza politica.
Chiudiamo la nostra visita ritornando al Mossawa center e Jafar Farah, il suo direttore, ad una nostra precisa sollecitazione circa l'insufficiente critica dei palestinesi nei confronti di quei regimi arabi che contestano l'esistenza dello stato di Israele, molto serenamente ci ha dichiarato: «I nemici del popolo palestinese nella storia sono stati tre: il protettorato britannico, il sionismo, e i paesi arabi dove ancora non esiste la democrazia».

Marco Bobbio e Diego Novelli (Nuova Società)

AMAL,SPERANZA



Amal, speranza. Ma è difficile declinare la speranza a Hebron, città come le altre erosa dall’incedere degli insediamenti israeliani, e violata dalla loro maniacale contiguità fin nelle sue membra più intime, il centro storico che abita uno dei suk più antichi e fantasmagorici di tutto il Medio Oriente.

Amal, speranza. La città, piuttosto, vive ostaggio della follia. La follia di una frammentazione che si centellina palmo a palmo, porta a porta, al punto che lo stesso negozio all’ingresso del mercato cittadino detiene una vetrina nella zona Hebron 1 (H1), e l’altra nella zona Hebron 2 (H2). La prima sotto controllo palestinese, sotto governo israeliano la seconda. Se non fosse una perversità della storia, sembrerebbe un vezzo ludico infantile. Fai un passo, H1, fanne un altro, H2.

112 sono i blocchi stradali
dentro la città, a restringere i movimenti dei suoi 250.000 abitanti (256 le barriere stradali nella provincia, in cui vivono 700.000 persone). Reti di protezione, muri e paratie di ogni fatta. Filo spinato ad ogni angolo. Sguardi armati che sbirciano dai tetti. Due mondi a parte, che si toccano solo per farsi male. Ovunque, telecamere puntate sulla vita quotidiana della gente che da sempre vive qui, la comunità araba la cui normalità viene poco a poco scemando. Nella città vecchia, secondo un’indagine condotta dall’organizzazione israeliana B’Tselem alla fine del 2006, 1.014 unità abitative palestinesi sono state abbandonate dai loro proprietari (il 41.9% delle abitazioni nell’area), e 1829 attività commerciali hanno chiuso i battenti. durante la seconda intifada (il 76,6%), 440 delle quali a seguito di ordini militari.

E così la antica Hebron, da quasi seimila anni brulicante di commerci ed attività culturali, Hebron la città santa dei patriarchi e fonte emotiva e spirituale del culto musulmano ed ebraico, è andata assumendo i connotati surreali della città fantasma. Un deserto urbanistico presidiato con possenza di tecnologia sotto gli occhi, fieri e rassegnati ad un tempo, dei suoi cittadini legittimi. I vecchi palestinesi che bevono indifferenti il tè fra le mercanzie, accogliendoci con sorrisi complici mentre attraversiamo i vicoli. I giovani come Abit Sider, che resiste con la famiglia nella sua casa abbarbicata a pochi metri dalle abitazioni dei coloni, e per questo subisce vessazioni senza esclusione di colpi. Ci mostra una cicatrice da proiettile sul petto. Il figlioletto di tre anni ha anche lui il suo trofeo di guerra, lo struscio di una pietra a pochi centimetri dall’occhio destro.

Tutto è cominciato nel 1968, quando 400 ebrei – molti dei quali avevano fatto la guerra in Vietnam – approdarono ad Hebron dalla comunità ebraica di Brooklin. Veterani, ricollocati dalla loro società di riferimento, cui nel tempo si sono aggiunti piccoli nuclei di ebrei russi. Integralisti incapaci di concepire gli arabi se non come usurpatori di una terra anticamente promessa. Gli arabi hanno altri 22 stati nei quali andare, dunque rendere la loro vita impossibile assume l’ossessiva rilevanza di una missione divina. Lo fanno tutti i giorni, attaccando i pedoni e riversando sui vicoli del mercato pietre e spazzatura, bottiglie di urina e persino – come ci racconta Khaled Oseily, sindaco di Hebron – sostanze chimiche che irritano la pelle. Un traboccare tale di schifezze che l’amministrazione della città ha dovuto provvedere con l’installazione di reti metalliche dalle fitte maglie sospese sopra le teste della gente, un raccapricciante velo sopra la storia di queste vie.

Le poche centinaia di coloni dentro la città vecchia sono protetti da migliaia di giovani soldati di leva che mantengono una rigida politica di separazione. La militarizzazione della città, in barba agli accordi di Oslo, è andata intensificandosi a partire dal 1994, quando un colono ebreo americano, Baruch Goldstein, fece irruzione all’interno della moschea di Abramo uccidendo 29 palestinesi in preghiera. Da allora l’accesso alla moschea è a discrezione dei soldati israeliani, che fanno il bello ed il cattivo tempo: il luogo sacro come un fortino.

Amal, speranza. Accanto al sacrario di Isacco, un giovane padre intrattiene discretamente la più piccola delle tre figlie, la moglie accanto a lui assorta in preghiera. Finalmente una dirompente scheggia di vita normale ritagliata all’impotenza della geopolitica, in questa scena che restituisce senso alla spiritualità del luogo, ed alla voglia di pace dei palestinesi. La vita normale è una frontiera della pace, a Hebron. Ed è anche la priorità che il sindaco, uomo d’affari prestato alla politica, si è dato per l’amministrazione della città. Strutture ricreative, centri sportivi e culturali per i giovani, perché possano vivere come i loro coetanei nei paesi liberi, in collegamento con il mondo tramite internet e facebook. I giovani rappresentano le future leadership del popolo palestinese, la speranza su cui poggiare i presupposti del cambiamento dopo 42 anni di occupazione.

Amal, speranza. Le ragazze escono dalla scuola araba a piccoli gruppi, ammiccanti, con il capo coperto. Ridono, le lezioni finite per oggi. Dai loro zaini di adolescenti penzolano ciondoli e portachiavi, gli stessi dello zaino di mia figlia.
La terra desolata dei coloni ebrei, e la violenza del loro fanatismo, non ha ancora spento del tutto la voglia di futuro dei palestinesi. Ma le parole non servono più. Occorre una nuova strategia della politica. Occorrono soprattutto fatti. Una nuova, concreta, coerenza. Prima che si spenga del tutto la speranza.

Nicoletta Dentico

Per avere uno sguardo limpido


Gruppo 6: visita alla parte "West Bank" di Gerusalemme, di Bnei Adam, Halamish, Ni'in e di Modi'in Illit, insediamenti Israeliani. Nel pullman insieme a Tonio Dell'Oglio di Libera, Michele Curto, infatigabile ed entusiasta  responsabile del nostro gruppo, e Noa, rappresentante appassionata di Peace Now.

Per avere uno sguardo limpido e capire le ragioni israeliane, ritorno al sogno di Ben Gurion, all'utopia  sionista che non era, come ci racconta Avraham Burg nel suo libro "Sconfiggere Hitler" una semplice iniziativa di salvataggio del popolo ebraico minacciato dai suoi persecutori, bensì piuttosto come la sfida per costruire un paese e una società più giusti, fondati sull'amore del prossimo. In altre parole, un paese e una società dove fosse bandito tutto ciò che ci è stato inflitto in quanto minoranza perseguitata. Oggi, questa grande istanza umanitarista non ha più ascolto in Israele: i conflitti sociali e territoriali hanno assestato un duro colpo ai valori e lasciare tramontare l'orizzonte del pensiero e delle aspirazioni nazionali".
Leggo queste parole ad alta voce ai miei compagni di viaggio e cerco di ricordarmele quando ci fermiamo davanti ai cancelli degli insediamenti, quando vediamo i poliziotti israeliani accostarsi con la  range al nostro pullmann, avvicinarsi dapprima in allerta e poi solo  incuriositi a noi, lasciarsi avvicinare da alcuni dei nostri che sono lì, sinceramente, per ascoltare le loro ragioni e, infine,  rispondere  alle domande di chi cerca di capire il perché di tante armi, di tanta violenza, di una difesa durissima dei loro territori troppo spesso occupati con veri atti di soppruso. Loro  invocano le ragioni della sicurezza, evocano le loro paure, e le loro buone ragioni per essere lì, nella terra dei padri.

E così si fa  pesante, si trasforma in incubo il muro  di cemento che ci accompagna lungo il cammino, il muro invalcabile, difeso con i fucili dagli Israeliani, pronti a colpire  con pallottole di gas  i pacifisti palestinesi  di Ni'in, decisi ,come le madri di Plaza de Mayo, a riunirsi ogni venerdì davanti  al muro che ha diviso le loro casa dalle loro terre, per prolamare in silenzio le loro ragioni. Ci accostiamo tra i fantasmi di morti evocati da Hassan Mousa, professore di Inglese della scuola del villaggio, al muro reale, insanguinato dai molti morti che hanno cercato di attraversarlo, hanno cercato di abbatterlo, il muro che divide spesso in due parti i villaggio palestinesi, il muro nato per proteggere gli israeliani, sta diventando il monumento che urla muto in faccia al mondo la loro crudeltà.
Filo spinato e mura che abbiamo visto nella foto dei campi di concentramento che rinasce qui, costruito proprio dalle vittime della Shoah.
Alla fine della nostra giornata da "incubo" in cui abbiamo visto crescere i muri dei palazzoni  degli insediamenti abusivi israeliani,  mi ritornano in mente le parole di Burg ascoltato a Mantova: " Noi Israeliani siamo diventati come Hitler voleva. Questa è la sua vittoria postuma e il nostro obiettivo oggi più che mai è di "sconfiggerlo" cambiando radicalmente strada. 
So che altri gruppi hanno incontrato pacifisti israeliani, commossi dai tentativi, come lo siamo stati noi, di non lasciare che la violenza vinca.

Alla fine della giornata mi viene in mente il paradosso di Swift: "Le utopie di chi ha voluto costruire il paradiso in terra si sono sempre trasformate in autentiche macchine infernali". Ecco il male sta proprio lì: nel tracciare la prima linea per dividere, il solco,  ha la valenza di un gesto sacro che ha sempre il dupplice aspetto di apparizione benefica e spaventosa. Forse i fratelli Abele e Caino, Romolo e Remo sono una sola persona: uno l'ombra dell'altro e oggi potremmo pensare che i Palestinesi sono l'ombra degli Israeliani, gli immigrati sono l'ombra dei popoli autoctoni, i migranti degli stanziali. Non è facile riconoscerci nella nostra ombra, il primo moto e quello della repulsione, della fuga.

Eppure l'ombra ritorna, noi non possiamo liberarcene, tanto vale allora, come direbbero  gli psicanalisti, integrarla in noi, e noi che siamo qui, in questa missione di pace,  dobbiamo almeno essere consapevoli che Palestinesi e Ebrei sono parte di noi stessi. Il nostro primo passo è di conoscerli, di abbattere i nostri muri cresciuti sui pregiudizi, sempre in agguato, e pronti a crescere e a moltiplicarsi, insediamenti abusivi della nostra anima. 

Mimma Forlani

Foto di Laura Troja

Le donne. Forza di vita




Si fanno sangue e carne le parole povertà, semplicità, espulsione, confisca della terra, armi, odio, violenza che risuonano nei saluti di benvenuto delle autorità che  accolgono noi pellegrini della pace, sabato sera nel comune di Bethlehem, paese del pane.Nella sala gremita il cuore s'aggrappa alla speranza mentre le cifre diventano paesaggi desolati.

Parole mute pulsano sul volto incorniciato dal foulard nocciola di Khadva, "green" palestinese dal volto e dagli occhi severi  che hanno attraversato la vita di filo spinato - la nostra guida di domenica nei villaggi palestinesi.
Un volto impastato di sale, morto alla gioia negli occhi pieni di lacrime della mamma di Hamas, morto misteriosamente a Bonn.

Sentieri di sabbia e di sassi si fanno irti di interrogativi nel villaggio palestinese di Swahreh dove ci accolgono in cucina le donne che hanno impastato focaccine di sale, miele e timo, hanno spremuto limoni e tagliuzzato la menta dentro il bicchiere della bevanda benefica per noi ospiti e per i loro bambini che imparano nelle aule di una scuola primaria e materna.
La vita continua negli sguardi dei bambini che ci accolgono timorosi e vitali in gesti e voci dell'infanzia di sempre.

Sotto un pino marittimo, appoggiati sulle pietre, ascoltiamo le parole di pace di Hafez, picchiato e imprigionato dai coloni nazionalisti e ortodossi, insediati sulla terra dei padri, fattasi improvvisamente verde e fertile.
I bambini ritornano dalla scuola ma non possono raggiungere le loro case se non accompagnati dai militari israeliani.
Oltre un'ora dovranno aspettare il loro arrivo sotto il sole a picco, con le loro pance vuote, i vestiti che poco riparano.

Eppure i loro volti sono cosi' attaccati alla vita, i loro gesti trattenuti sul filo dell'odio dallo sguardo del padre che leva dalle loro mani le pietre già infilate nella fionde e le cesoie pronte a tagliare il filo spinato.

In questo giorno di vento e di sole, noi stranieri, in questa terra martoriata, stiamo accanto a Hafez, ai suoi numerosi figli, alla vecchia madre nel gesto simbolico di piantare alcune agavi vicino al filo spinato affinché i territori usurpati da un popolo dimentico della Shoah non si allarghino troppo.
Sì c'è speranza negli occhi di tutti noi, e la vita si fa largo mentre ascoltiamo i colpi ritmici dei piedi dei giovani palestinesi di Artas che picchiano e danzano su pavimento di una stanza in cui ci accolgono al suono della musica tra fazzoletti, borse e foulards ricamati dalle donne.
Le donne. Forza di vita.

Mimma Forlani