lunedì 19 ottobre 2009

Si conclude la settimana per la pace in Israele e Palestina. Prosegue il tempo delle nostre responsabilità


Una settimana per riflettere e testimoniare la nostra assunzione di responsabilità in un conflitto le cui responsabilità, alla radice, sono soprattutto europee. Non per pacifismo o buonismo, ma per un sano realismo, consapevoli del pericolo che questo conflitto rappresenta per l’Europa e il mondo, consapevoli che la pace porterà frutti copiosi anche per noi, sostiene Flavio Lotti, Coordinatore della Tavola della Pace.

Oltre 400 persone di 128 città italiane, dalla Liguria: di Alassio, Bolano, Celle Ligure, Genova e La Spezia, per sostenere le iniziative, numerose, a tutela dei Diritti Umani, in particolare le associazioni che vedono Israeliani e Palestinesi impegnati insieme, pacificamente, per i Diritti e per la costruzione della Pace.
C’è un’emergenza umanitaria in questa terra, che dovrebbe essere santa, che va affrontata subito: fermando tutte le forme di violazione dei Diritti Umani e aprendo Gaza. Un ragazzo di 17 anni Veronese è rimasto molto turbato dall’incontro con un coetaneo a Gaza, un giovane carico di rabbia…”perché lui è nato nella guerra, è cresciuto nella guerra e morirà nella guerra, perche da Gaza non si esce!”. In tutti i territori della Cisgiordania i diritti del Palestinesi vengono calpestati.
L’ONU calcola 600 tipi di ostacoli che la popolazione Palestinese deve affrontare per spostarsi e per le normali necessità della vita: Il muro con i suoi checkpoit che per i palestinesi rappresentano sempre una incognita; Le strade che tagliano il loro territorio con corridoi inaccessibili, molte strade della Cisgiordania sono accessibili sono a israeliani e turisti, alcune solo ai coloni; I sottopassaggi per evitare le strade proibite vengono tappati da pietre. Poi ci sono i chilometri di filo spinato, interrotto ogni tanto da cancelli che vengono gestiti dalle autorità Israeliane. A Bil’in, villaggio palestinese nella Cisgiordania, dove ogni venerdì si tiene una manifestazione pacifica contro il muro, abbiamo visto una casa contadina completamente circondata da filo spinato: quando il cancello è chiuso gli abitanti non possono entrare né uscire dal piccolo terreno che contiene la casa, quando il cancello è aperto possono muoversi, ma per raggiungere i loro campi devono fare un giro di chilometri.
Ho imparato nel corso di questo viaggio che Il muro e il filo spinato non stano a dividere i territori Palestinesi dal territorio dello Stato di Israele, non corrono sulla linea di confine, bensì seguono percorsi a volte rocamboleschi per includere insediamenti di coloni israeliani in territorio che dovrebbe essere palestinese. Proprio questi insediamenti stanno diventando una delle principali fonti di conflitto.

Un villaggio palestinese sorge a mezza costa di una collina, il territorio intorno, fino alla sommità della collina e oltre, è da sempre del villaggio per le coltivazioni e il pascolo. Un giorno inizia l’insediamento di coloni sulla sommità della collina che priva i Palestinesi delle terre, e, quindi, delle attività produttive, inoltre attraverso un intricato sistema di strade riservate e controlli per la sicurezza limita enormemente le possibilità di movimento e di attività degli abitanti del villaggio.
Legalmente ci sono diversi modi per realizzare un insediamento: spesso gli abitanti del villaggio palestinese hanno forme di proprietà basate sulla tradizionale conoscenza e non su documentazione legale e quindi lo stato può “formalmente” disporre di quei terreni; altre volte i terreni vengono requisiti per necessità relative alla sicurezza, si installa una base militare che col tempo lascia il posto all’insediamento civile.

Abbiamo visto una base militare dove operano 200 persone e dove si sta lavorando speditamente per la costruzione di infrastrutture (acqua, energia elettrica, fognature,…) per 25.000 persone, sarà un nuovo insediamento se qualcuno non lo ferma!
I nuovi coloni si “difendono” impedendo qualunque contatto con i Palestinesi e tenendoli sotto controllo in tutti i modi possibili (percorsi obbligati, faretti puntati dall’alto sul villaggio,…), si contano anche numerosi casi di maltrattamenti alle persone. I bambini Palestinesi crescono assediati e nella paura, ma neppure per i bambini israeliani è una vita facile.
Un altro tragedia per i palestinesi è rappresentata dalla demolizione delle case “abusive”. Sappiamo tutti quanto sia importante la legalità nella costruzione delle case, ma qui vengono considerate abusive anche case che da generazioni sono di una famiglia, sulla base di diritti consolidati ma non scritti, e nel contempo le richieste di costruzione di nuove case per i Palestinesi incontrano ostacoli di tutti i tipi, spesso insormontabili. Addirittura vengono demolite le case costruite, con il beneplacito dell’UNRWA dentro i campi profughi, la cui popolazione si è quintuplicata o decuplicata.

Esistono associazioni pacifiche contro la demolizione delle case, formate da Israeliani, Palestinesi e volontari internazionali: arrivano in massa a cercare di impedire la demolizione, denunciano i fatti qui e all’estero, ricostruiscono le case demolite. Abbiamo pranzato – benissimo! – in una casa che è stata demolita 4 volte, ora è stata costruita per la quinta volta e si attende la prossima demolizione, anche se si stanno facendo tutti i passi possibili perché rimanga in piedi (ogni abitante il villaggio ha sottoscritto un documento che quella casa è da sempre della famiglia secondo un accordo fra tutti gli abitanti del villaggio stesso). La casa oggi è la sede dell’associazione contro la demolizione delle case, la famiglia ha dovuto trasferirsi in un appartamento in affitto dopo che la signora è rimasta 1 mese muta per lo schoc e una figlia ha avuto gravi disturbi.
Ieri pomeriggio siamo scesi a concludere il viaggio a Jericho, il punto più basso della terra (415 metri sotto il livello del mare) “da cui non si può che risalire”, e a Gerico abbiamo fatto lo “stend up” per gli obiettivi del millennio: in più di 400 abbiamo saltato, sotto gli occhi stupiti della gente e quelli meccanici dei giornalisti che ci accompagnano, per testimoniare l’impegno a fare un salto in avanti per ridurre la fame e la povertà nel mondo.

Ci dicono che più del 60% degli israeliani è per la Pace, ma non sa a chi chiederla, per questo è IMPORTANTE che l’Europa si assuma le sue responsabilità, è importante rispondere immediatamente all’appello di Obama, è necessario aprire Gaza.
Ed è URGENTE perché tutti, qui e fuori di qui, sono convinti che questa sia l’ultima occasione di mettere fine a questo conflitto.

Elide Taviani

La Notte delle candele


Questa sera la piazza di Bethlehem è stata illuminata da tante fiammelle di candela, simbolo di Pace. Siamo al sesto giorno della settimana per la pace in Israele e Palestina “Time for Responsabilities”.
Siamo qui per assumerci le nostre responsabilità di Europei in un conflitto complesso, incredibile e di cui non si vede soluzione.

Abbiamo incontrato persone di tutti i tipi: Palestinesi dei villaggi, Israeliani pacifisti, profughi nel terribile campo di Gerusalemme, operatori dell’UNRWA (l’agenzia ONU che gestisce i campi profughi), i nostri Diplomatici, Sindaci, Amministratori, donne uomini bambine e bambini palestinesi e israeliani.
Domenica 11 a Ramallah abbiamo avuto un incontro con il Primo Ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad, lo stesso giorno avevamo partecipato insieme a lui a una manifestazione per il diritto del Palestinesi a raccogliere le proprie olive; alla manifestazione erano presenti anche il Ministro dell’Agricoltura dell’Autorità Nazionale Palestinese, rappresentanti delle Nazioni Unite, rappresentanti diplomatici della Svezia e del Giappone.

Questa complicata marcia vede nella piccola Bethlehem e in giro per i territori palestinesi e israeliani oltre 400 rappresentanti di Enti Locali, ONG, Associazioni italiane; una iniziativa di “diplomazia dei cittadini”. Stiamo sostenendo le manifestazioni per il diritto a raccogliere il frutto delle proprie coltivazioni, le organizzazioni che si oppongono alla demolizione delle case di palestinesi, e le manifestazioni contro il muro.
Questo muro che è la nuova vergogna del mondo, che divide i figli dai genitori, le case dagli orti, un villaggio dall’altro e che opprime tutti, anche noi, con la sua presenza, le sue torrette armate, i quintali di filo spinato, i suoi checkpoint angoscianti.

Convivere col muro: partiamo da Betlemme alle 7,30 verso Gerusalemme, in pochi minuti siamo al muro e al suo checkpoint “Tomba di Rachele”, i veicoli sono tutti in fila a passo d’uomo, sul muro una scritta che lo paragona a quello del ghetto di Varsavia; arriviamo alla sbarra, fanno entrare il pullman e ci fermano prima della rotonda dentro al checkpoint. Passaporto in mano, contornati da tre soldati armati di mitra, veniamo instradati verso un tunnel/cunicolo dove scendiamo zigzagando fino a un antro controllato a vista dai soldati armati sopra di noi, come nelle prigioni. In fila, molto lentamente passiamo il controllo del passaporto, c’è anche la macchinetta per le impronte digitali ma è spenta; riprendiamo a zigzagare in salita, altro tunnel e, finalmente, l’uscita. Il pullman ci attende a fianco alla rotonda fiorita: c’è anche l’aiuola dentro il checkpoint!
Saliamo sul pullman, passiamo l’ultima sbarra e finalmente siamo fuori con 45 minuti di ritardo.

Alla Porta di Jaffa sale con noi un amico Palestinese, con lui visitiamo un villaggio fra Gerusalemme e Ramallah. Dopo la prima visita lui scende, sale sulla macchina di amici e parte per il suo giro: non può proseguire la strada con noi verso il prossimo checkpoint, dovrà fare un giro più lungo sulle strade riservate ai Palestinesi. Arriviamo al checkpoint, ci fermano, non vogliono controllare i passaporti ma non ci fanno passare. Nello stupore generale i soldati spiegano che stiamo percorrendo una strada riservata ai coloni dei nuovi insediamenti israeliani, dove i turisti non possono passare. Occorrono circa 20 minuti di trattativa per convincerli e ripartire. Al prossimo incrocio attendiamo il nostro amico palestinese che ha dovuto fare un giro molto più lungo del nostro. E’ passata così mezza giornata, abbiamo fatto la metà delle cose programmate.
Per i Palestinesi passare i checkpoint è molto più complesso, lungo e doloroso, trascorrono lì dentro ore e non c’è mai certezza di poter uscire dall’altra parte.

Questa mattina una delegazione (fra loro anche Angelo Cifatte del Comune di Genova in rappresentanza dell’AICCRE), è andata a Gaza, dove nulla è stato ricostruito, nonostante le promesse, ci dice Filippo Grandi dell’UNRWA, dove la gente cerca di sopravvivere ammassata in mezzo a macerie, spazzatura e distruzione. La densità della popolazione è altissima, la maggior parte sono bambini.
Ci raccontano che Gaza è peggio della situazione del Campo Profughi di Gerusalemme che abbiamo visitato tutti ieri mattina. Al campo si accede attraverso un corridoio chiuso da rete metallica e un checkpoint, per Gaza i controlli sono quattro.
Al campo si vive in mezzo ai rifiuti e alle macerie delle case demolite perché “abusive”, i rifiuti vengono bruciati lungo le strade e i bambini crescono nella diossina. Il campo è stato realizzato per 3.500 persone, oggi ce ne sono 18.000, ma senza tutti i permessi in regola non si può costruire, le case abusive vengono demolite dai soldati israeliani. Anche gli operatori ONU vengono controllati dai soldati israeliani e non possono portare dentro il campo neppure un sacco di cemento. Camminando per quelle strade la sensazione è di schifo. Posso solo provare a immaginare Gaza.

Elide Taviani