lunedì 26 ottobre 2009

Diario di viaggio: Report Palestina


Siamo arrivati in quattrocento dall'Italia, persone singole,
rappresentanti di associazioni e amministratori locali per questa
settimana della pace in Israele e Palestina, organizzata dalla Tavola
della Pace. Questa missione e' la più grande e numerosa dopo parecchi
anni, almeno per quanto riguarda la Terra Santa. Per me e' la prima
volta dopo la mia espulsione avvenuta nel 2002 quando un gruppo di
pacifisti voleva raggiungere Gerusalemme per partecipare ad una
manifestazione di solidarietà con il popolo palestinese. Da quella
volta non avevo più avuto occasione di partecipare ad alcuna missione
di pace in Palestina, almeno passando da Israele. Mi sono aggregato
volentieri alla carovana, in rappresentanza della Rete degli Artisti
contro le guerre e per promuovere nell'occasione la marcia mondiale per
la pace che e' da poco iniziata.

Sabato 10 ottobre:
Arrivo a Tel Aviv e pernottamento a Betlemme. Subito dopo il nostro arrivo abbiamo avuto un incontro in una sala del Comune di Betlemme. Erano presenti anche il Sindaco di Betlemme, il governatore della regione e il
portavoce del Consolato italiano. Abbiamo fatto il punto sulla settimana di pace e ci siamo scambiati le prime impressioni. Era presente Flavio Lotti della Tavola della Pace, Sergio Bassoli del Coordinamento delle ONG per la pace in Medio Oriente e Luisa Morgantini.

Domenica 11 ottobre:
Il giorno dell'incontro nei territori palestinesi. I partecipanti sono stati suddivisi in gruppi con altrettante destinazioni. Il nostro gruppo si e' recato ad Hebron. Qui abbiamo avuto un primo incontro con il sindaco della città. In quella
occasione ho proposto al sindaco una collaborazione tra il Comune di
Hebron e la Rete Artisti. In seguito abbiamo fatto un tour del centro
storico con destinazione finale la moschea di Abramo. Poi pranzo
offerto dal Comune e a seguire visita al campo profughi di Al Fawatt
nei pressi di Hebron. In quella circostanza abbiamo avuto un incontro
con il coordinatore del campo che ci ha illustrato i problemi passati e
presenti e la speranza per un futuro migliore. Questo campo ha 17.000
abitanti ed e' uno dei 19 campi profughi presenti in Palestina dal
1948. Mi si conceda un sorriso amaro scrivendo queste righe pensando
che a tutt'ora a più di 60 anni di distanza queste persone ormai alla
terza generazione continuano a vivere in queste condizioni, qui in
Palestina e altrove, come ben sappiamo. Fatto comune a tutti i campi,
un terzo della popolazione lavora in territorio israeliano e più della
metà degli abitanti e' al di sotto dei 18 anni. In serata rientro a Betlemme.

Lunedì 12 ottobre:
Giorno dell'incontro nei territori
israeliani
(ho scelto io questa definizione, giacché si parla anche di
territori palestinesi). Abbiamo visitato dapprima il centro culturale
di Mossawa a Haifa. Ivi abbiamo avuto un incontro con una
rappresentante delle Donne in nero che ci ha brevemente illustrato le
iniziative di pace di questo gruppo di donne che collabora con i
pacifisti palestinesi. A seguire un incontro istituzionale con due
consiglieri dell'amministrazione comunale di Haifa a cui abbiamo
rivolto diverse domande che però in parte sono rimaste sul tavolo,
tipo l' uguaglianza tra palestinesi e israeliani. Sui particolari
tornerò magari in seguito. Haifa è la terza città israeliana, maggiore porto e anche centro universitario (il 20% degli studenti sono arabi). Dopo l'incontro abbiamo fatto un breve giro nella città fantasma nel centro di Haifa, ossia un quartiere che era stato abitato dai palestinesi, che poi successivamente è stato evacuato e adesso sta per essere ristrutturato per poi essere messo in vendita al miglior offerente. Dopo Haifa ci siamo diretti in un villaggio palestinese sulla costa a sud di Haifa. Questo villaggio si trova nella regione
storica della Cesarea e conta più di settemila abitanti. Dopo un breve
incontro con i responsabili del villaggio, abbiamo avuto un momento
conviviale sulla bellissima spiaggia di questo villaggio. Dopo di ché
abbiamo avuto ancora il tempo di visitare il sito romano di Cesarea, il
cui nome e' dovuto a Giulio Cesare che si era recato in quei luoghi.

Martedì 13 ottobre:
Giorno dell'Europa. Convegno internazionale a Gerusalemme, a cui hanno partecipato vari relatori provenienti da diversi paesi europei, tra cui Janet Aviad, autrice e docente all'università di Gerusalemme, Sari Nusseibeh, professore all'Al-Quds University, Christian Berger, della Commissione Europea, Micheal Sabbath, patriarca latino di Gerusalemme, Jose Maria Ruiberriz, dell'Assemblea di Cooperazione per la Pace in Medio Oriente ACPP, Sergio Bassoli, direttore della piattaforma delle ONG italiane per il Medio Oriente. Le conclusioni sono state fatte da Luisa Morgantini e da Naomi Chazan, ex parlamentare della Knesset e docente di scienze politiche. La conferenza e' stata moderata dal giornalista del Messaggero Eric Salerno e da Paola Caridi, giornalista di Lettera 22.
Il pomeriggio e' stato dedicato alla visita della città vecchia con seguente ricevimento e buffet per tutti i partecipanti al Hotel Ambassador. A seguire giro della città by night.

Mercoledì 14 ottobre:
Il giorno della pace. Visita al campo profughi a Gerusalemme sud gestito dall' UNRWA, Agenzia per i rifugiati dell'ONU. Qui abbiamo avuto un incontro con il Direttore del campo e con i suoi collaboratori. Le stesse considerazioni fatte per il campo di Hebron valgono anche per questo. A seguire abbiamo visitato il Museo dell'Olocausto Yad Vashem. Dopo una cerimonia durante la quale è stata consegnata una corona di fiori a ricordo delle vittime del nazismo e la consegna di uno striscione da parte dell'associazione Terra del Fuoco che organizza da sette anni il treno della memoria per Auschwitz, visita al museo. Commenti superflui. In serata abbiamo avuto un incontro con l'Associazione dei parenti delle vittime palestinesi ed israeliane all'Auditorium del Centro Notre Dame e a seguire "Ricostruiamo la speranza", manifestazione per la pace, a cui ha partecipato anche la cantante israeliana Noah.

Giovedì 15 ottobre:
Giorno di Gerusalemme. La giornata è dedicata alla visita degli insediamenti israeliani a ridosso dei territori palestinesi nel circondario di Gerusalemme. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi ciascuno con destinazioni diverse. Nel corso di questi sopraluoghi sono stati effettuati anche degli incontri con i rappresentanti degli insediamenti. In serata una manifestazione a Betlemme in Piazza della Natività dal nome suggestivo : “La notte delle candele”, una fiaccolata di solidarietà con il popolo palestinese. A seguire un concerto del pianista Luciano Basso nel Centro per la Pace.

Venerdì 16 ottobre
Giorno della riflessione. Alle 9 assemblea finale di tutti i partecipanti. Prima sessione dedicata agli amministratori locali, a seguire la sessione aperta a tutti i partecipanti. Nel corso dell’assemblea è stato fatto il punto dell’esperienza maturata durante la settimana e prospettato le iniziative future. Intanto la prossima marcia perugina-Assisi del 16 maggio 2010. Una manifestazione per la Palestina si terrà il giorno 10 novembre a Bruxelles. E’ stata anche proposto un concorso fotografico che riassuma i momenti più significativi della settimana e un Cd con le opinioni dei partecipanti.
Ci sono stati alcuni interventi finali da parte di gruppi e persone che hanno partecipato all’iniziativa, come per esempio un gruppo di studenti di Verona autodefinitesi “Ambasciatori della pace”. In tale occasione il sottoscritto ha presentato la marcia mondiale per la pace che aveva già avuto due momenti d’incontro i giorni 11 e 12 ottobre a Gerusalemme e Tel Aviv tra una delegazione della Marcia e le autorità locali e ha inoltre proposto una raccolta poetica dedicata alla settimana della pace. Alla fine sono stati sottolineati i tre punti focali per un documento finale ossia: l’appello per Gaza, l’appello di Obama e il richiamo alle responsabilità di ciascuno.

Dopo l’assemblea un gruppo di partecipanti si è diretto a Ramallah per partecipare ad una manifestazione per il diritto all’educazione, nonché arrivati alle porte della città, il passaggio era bloccato dai militari israeliani e così il gruppo ha dovuto fare dietro front. Nel pomeriggio giro turistico sul Mar Morto, dove si è effettuato lo stand up collettivo nell’ambito della campagna mondiale contro la povertà. A seguire visita a Gerico e rientro a Betlemme.

Sabato 17 ottobre
Giorno del rientro in Italia.

Edvino Ugolini
Rete Artisti

Diario di viaggio: Considerazioni sul viaggio in Palestina


Questa settimana della Pace in Palestina è stata una esperienza di conoscenza davvero incredibile e che ha arricchito i partecipanti da diversi punti di vista. Tutto quello che ognuno di noi, come amministratori, singoli cittadini, esponenti di associazioni, sindacati e movimenti, poteva aver acquisito quale bagaglio personale di nozioni e consapevolezza credo che sia risultato stravolto dal contatto diretto con una realtà che nessuna trasmissione televisiva o servizio giornalistico possono rappresentare in maniera completa. Non solo per l’approccio culturale o per l’opzione di fondo che ciascuno ha nel raccontare ciò che vede ma anche e soprattutto per la parzialità che il proprio angolo di visuale comporta. Appare evidente, quindi, che anche ciò che proverò a dire dal mio punto di vista, per quanti sforzi possa fare di astrazione e “neutralità”, risulterà parziale in senso oggettivo (non ho avuto modo di conoscere complessivamente la vicenda di quei luoghi) e soggettivo (difficilmente riuscirò a spogliarmi del mio retroterra culturale e della carica emotiva suscitata da alcuni racconti vissuti, da chi li narrava, in prima persona e sulla propria pelle).
Proverò quindi ad offrire alcune riflessioni che abbiano ben chiare queste premesse e che si pongano l’ambizioso obiettivo di uscire dalla ovvietà e dalla banalità.

Credo infatti che dal punto di vista delle dichiarazioni di intenti nessuno, o quasi, possa dirsi contrario alla pace (a prescindere dalla sua collocazione politica) e che richiamarsi ad una trasversalità con riferimento a questo tema rischia di essere una ingenuità o un “infantilismo” che è addirittura peggiore del concetto sotteso alla accusa (diametralmente opposta) di essere “pacifisti”, che spesso viene utilizzata come una clava per definire coloro i quali parteggiano per questa causa, ma in maniera – come dire – velleitaria o irrealistica ed irrazionale.

A me sembra evidente che il fatto stesso di richiamarsi ad una trasversalità (pur se con la precisazione innanzi espressa) sottenda invece il potenziale del movimento mondiale per la pace che, a seguito della manifestazione del 15 febbraio 2003 (che ha visto oltre 100 milioni persone scendere in 600 piazze nel mondo) è stato definito dal New York Times come la seconda potenza mondiale. Ma questa “trasversalità” è una conquista dal basso che presuppone l’acquisizione di coscienza e di consapevolezza su questo delicato tema in maniera avulsa e scevra dai condizionamenti partitici o di schieramento politico e che si traduce in militante e convinta partigianeria. Non si tratta, in definitiva, di trasversalità (termine utilizzato da molti anche nelle nostre discussioni) ma di tendenziale o potenziale egemonia culturale.
Ciò da cui dobbiamo, o dovremmo, partire è il concetto secondo cui la violenza genera violenza e alimenta la perversa spirale terrorismo-guerra-terrorismo, nonché partire, in una logica di corrispondenza tra mezzi e fini, dalla consapevolezza che la pace non può essere costruita con la guerra la quale sancisce soltanto le “ragioni” del più forte. Occorre invertire un paradigma che purtroppo, allo stato, risulta maggioritario nel senso comune e rischia di condizionare alla radice ogni possibile discussione. Sul punto straordinariamente illuminanti si rilevano le affermazioni di Papa Giovanni Paolo II: «Esiste un diritto a difendersi dal terrorismo. E un diritto che deve, come ogni altro, rispondere a regole morali e giuridiche nella scelta sia degli obiettivi che dei mezzi. L'identificazione dei colpevoli va debitamente provata, perché la responsabilità penale è sempre personale e quindi non può essere estesa alle nazioni, alle etnie, alle religioni, alle quali appartengono i terroristi».

Ciò è quanto non accade in questo momento nei territori israeliani e palestinesi. Al contrario, può essere detto che attualmente nei territori palestinesi vi è una emergenza umanitaria e che i diritti umani non trovano concreta attuazione.
Con riguardo a quanto appena detto, posso certamente confermare che le visite ad Hebron, ad Haifa e ai campi profughi di Shu’fat e Al-fawar, alla città palestinese in territorio israeliano di Jeseelzarka e al villaggio di Beit-Doku, unitamente alla raccapricciante realtà di chilometri e chilometri di muro, hanno destato in me questa innegabile sensazione. Queste attuali condizioni sono certamente anche la reazione ad una altrettanto innegabile violenza costituita dal terrorismo.
Ma provando ad andare oltre questa sensazione immediata (scaturente dallo sfogo costituito dai racconti di uomini delle istituzioni e persone comuni), credo che la situazione attuale mi abbia colpito per la sua frammentazione. In altre parole, esistono diversi problemi che riguardano differenti realtà e differenti situazioni e condizioni soggettive. Questi disomogenei contesti della complessiva realtà palestinese possono essere affrontati soltanto se ricondotti ad unità e se affrontati nel loro assieme. Un altro problema che mi è sembrato evidente è quello della mancanza di rappresentatività. Ogni relazione e interlocuzione può essere utile a favorire un processo reale se la parte con cui ci si confronta sia davvero rappresentativa della realtà da cui proviene. In caso contrario, ogni processo o formula rischiano di cadere dall’alto ed essere percepiti come una ulteriore imposizione. Più volte, dalle discussioni che abbiamo svolto, soprattutto con interlocutori palestinesi, è emerso che ognuno parla a nome di un gruppo (OLP per il campo profughi di Shu’fat, Fatah per il sindaco di Hebron) ma senza essere passati per un processo realmente democratico. Inoltre, la divisione in grossi gruppi familiari contribuisce ad una frammentazione ulteriore e costituisce ostacolo alla democraticità interna alla Palestina.

Ed ancora, un ulteriore elemento che mi è sembrato emergere con nettezza da ogni discussione è quello del vittimismo. Di entrambe le parti. Dal versante israeliano questo elemento scaturisce dall’essere stati, come ebrei, vittime per antonomasia della follia dell’uomo in quello che è stato il punto più basso e l’abominio della intera umanità: la shoà. E, inoltre, dal sentirsi, per le note vicissitudini belliche e terroristiche, sotto costante assedio. Questo vittimismo genera una inconscia rimozione delle prevaricazioni imposte ai palestinesi o una sorta di giustificazione delle medesime. Dal versante palestinese, mi sembra invece che il continuo ed incessante racconto delle pur obiettive ingiustizie subite si traduca in una sorta di vittimismo che è tutto in funzione di una particolare rivendicazione o di una maggiore attenzione a quel particolare spaccato di società vissuto da ognuno di loro. In altre parole, la frammentazione di cui si diceva innanzi, in uno a questa sorta di vittimismo, mi è sembrata funzionale ad attirare l’attenzione sulla centralità del problema e ognuno vive, quale profugo o residente in una particolare zona e così via. Questa forma di rivendicazionismo non deve essere sottovalutata, per un verso perché le questioni poste per la loro maggior parte non sono affatto strumentali e per un altro verso perché nel processo di pace si sono spesi dal 1993 ad oggi 12 trilioni di dollari. Si tratta di una somma enorme che sicuramente ha arricchito singoli gruppi (forse privi di quella reale rappresentatività di cui si è detto) a scapito di una socializzazione delle risorse impiegate e con una sostanziale deresponsabilizzazione di Israele.

Tutte queste sensazioni ed impressioni le ho ricevute e vissute in un contesto in cui la comunicazione e l’informazione israeliana ed internazionale sembrano offrire un racconto della realtà assai diverso dalla sostanza delle cose. Ci è stato riferito che i cittadini israeliani difficilmente possono avere contatti con i palestinesi e con gli stessi coloni e ad essi è anche impedito l’accesso nei territori. Una martellante campagna mediatica rappresenta costantemente l’assedio ed il potenziale pericolo vissuto da Israele omettendo di dare una completa informazione sulla attuale condizione dei palestinesi. Tutto ciò comporta un clima di continua tensione che non facilita il dialogo e compromette le relazioni anche in quelle rare ipotesi di convivenza che mi è capitato di conoscere, come ad esempio quella di Haifa. Per non dire che per i palestinesi con il passaporto israeliano tutto ciò si traduce in un formale riconoscimento di pari diritti e dignità ma in una sostanziale situazione di disparità che ha tratti molti simili all’apartheid.

Accanto a tutto ciò, abbiamo avuto l’occasione di vivere situazioni ed esperienze in grado di dare speranza per il futuro e per l’umanità. Mi riferisco alle Women in black o al Parents Circle. Anche in un contesto difficile come quello descritto, è possibile che nascano esperienze in grado di scardinare il senso comune e costituire una base su cui ripartire. In particolare, l’incontro avuto con una donna israeliana a cui avevano ucciso il figlio ed un ragazzo palestinese a cui avevano ucciso il fratello (entrambi della associazione Parents Circle) è stato straordinario. Innanzitutto perché ha fatto emergere la situazione di terrore che entrambi i popoli sono costretti a vivere (le violenze fisiche per chi è sospettato di terrorismo o la paura che costringe a mandare i figli a scuola su autobus diversi per paura degli attentati: così riducendosi il potenziale danno). E poi soprattutto perché è stato davvero illuminante sulla non violenza, altro elemento fondamentale per qualsiasi progetto di pace.

La non violenza non solo come modalità della condotta ma come strumento reale di critica di qualsiasi potere o prepotenza. La non violenza come regola universale, come rivoluzione culturale, come nuovo paradigma in grado sovvertire alla radice i tradizionali approcci e le culture che governano il mondo e le relazioni tra gli individui. Mi ha fortemente impressionato ciò che ha detto Alì, il giovane palestinese. Dopo aver subito diverse violenze dalla polizia che lo aveva interrogato per ore a seguito dell’uccisione del fratello, Alì, che poteva essere tentato a dare sfogo alla sua rabbia, alla sua frustrazione e al suo dolore, ha pensato che non voleva consentire un’altra “occupazione” (termine utilizzato per richiamare le occupazioni israeliane nei territori): quella della sua mente. Se avesse reagito con violenza alla violenza avrebbe consentito ai suoi aguzzini di controllare anche la sua reazione e in definitiva la sua mente. Per questo aveva ringraziato il commissario perché con la sua condotta feroce lo aveva fortificato nella giustezza della sua scelta: la non violenza.
Questa visione dell’universo scardina ogni ricerca delle ragioni e dei torti, ogni possibile paragone tra violenza e violenza e ci rivela una pace come concetto universale non comprimibile nei desiderata di ognuno.

Credo che solo questa possa essere la strada. La spirale terrorismo-guerra-terrorismo si autoalimenta e le posizioni tendono tutte a farsi più estreme. La vittoria di Hamas a Gaza ne è una conseguenza. Su questa strada ci si incammina verso un vicolo cieco senza ritorno. Parlando con un ebreo ultraortodosso come con un palestinese ex carcerato a seguito della prima Intifada, ho appreso che ognuno ha le sue ragioni e che ognuno vuole la “sua” di pace. Il primo, infatti, si è dichiarato assolutamente favorevole alla pace e si è stupito per una simile domanda, dal momento che, a suo dire, la pace sarebbe minata soltanto dagli attacchi terroristici. Il secondo, a chi gli obiettava che se si fosse insistito troppo sulle ragioni dei palestinesi non si sarebbe proceduto agevolmente verso la pace, ha risposto con una metafora. Dopo aver sottratto la borsa a chi gli rivolgeva l’obiezione, ha detto: “va bene, adesso questa è mia!”. Poi: “Vuoi la pace? Va bene, pace. Ma questa borsa è mia! Pace.”

Come si vede da queste brevi e semplici riflessioni, la situazione è ben più complicata di quello che si possa immaginare. Lo sforzo che possiamo e dobbiamo produrre è quello di divulgare quanto accade in quel lembo di terra e costruire una diversa consapevolezza nel senso comune occidentale. Partendo dai noi e dalle nostre, anche piccole, realtà.

Paolo Pesacane

Diario di viaggio: Gli insediamenti dei coloni


Il nostro simpaticissimo giovane accompagnatore ebreo è stato militare. Ha disertato, ha subito il carcere, ha deciso di dedicarsi al problema degli sfratti e delle demolizioni di case palestinesi nella Gerusalemme est.

Ci fa incontrare
Mariam Rawi che con la sua famiglia (38 persone) è stata sfrattata da circa tre mesi. Sfrattati e buttati fuori dalla casa dove abitavano dal 1957. Non hanno documenti che dimostrino la proprietà.
Mariam con altre donne e bambini sta sotto un telo (non si può chiamare tenda) sul marciapiede di fronte alla sua ex casa, nella quale l’israeliano che la occupa, sta lavorando, immagino, per ripararla e sistemarla a suo gusto. Ci ha visto, siamo una cinquantina di persone sulla strada, e lo vediamo pure noi alla finestra con il telefono all’orecchio. Sta chiamando la polizia che arriva tempestivamente. Si fermano, ci osservano senza scendere dal veicolo, c’è perfetta calma, fanno dietrofront e se ne vanno lentamente.

Salutati gli sfrattati, dopo che abbiamo, con sollievo, assistito anche al ritorno del figlio di una signora della tenda che era stato prelevato di primo mattino dalla polizia per un interrogatorio,
ci dirigiamo verso un insediamento, dove potremo incontrare un colono israeliano.
Già da lontano, in una zona desertica e arida, possiamo ammirare una bellissima città costruita sulla sommità di alcune alture. Nella mia immaginazione un insediamento doveva consistere in qualcosa di abbastanza ridotto, invece Ma’aleh Dumin, così si chiama questa occupazione israeliana, conta circa 40000 abitanti.
Arriviamo al Municipio, un edificio ampio e moderno dove possiamo usufruire di bagni, acqua filtrata e fresca.

Ci viene a prelevare Ghidon, ebreo americano, un uomo ben piantato e sicuro di sé, che ci guida in un giro per la città con la corriera. Le strade sono esemplarmente pulitissime, numerosi giardini ben tenuti , piante e alberi annaffiati.
Gli edifici e i condomini ordinati e bianchissimi. Regna la tranquillità e la pace.
Completata la visita, Ghidon ci accoglie in una saletta e apre il dialogo raccontandoci che questa meraviglia è sorta nel deserto, sui terreni “disputati”, con lo sforzo dei coloni e con la collaborazione di Gerusalemme che ha fornito l’acqua, i materiali di costruzione e facilitazioni sulle tasse.
L’esercito israeliano ha anche provveduto alla difesa dai franchi tiratori palestinesi. A tutto questo Lisa obietta che questi sono territori occupati e non disputati, al che Ghidon con una certa arroganza controbatte che in altre occasioni li definisce addirittura come territori liberati.

L’angoscia si accumula dentro di me di fronte a tutte queste situazioni violente e assurde ma improvvisamente mi sgonfio perché mi assale una constatazione velenosa: le nostre tante situazioni italiane portate all’esasperazione.
Abbiamo incontrato un “normale” colono israeliano e fra qualche giorno ritroveremo un “normale” sindaco di Treviso

Miglioranza Claudio