martedì 13 ottobre 2009

LA MEMORIA DI GIAFFA

I turisti non se ne accorgono. Passano rapidamente lungo Pasteur street, per salire fino alla cima della vecchia Giaffa, nell’angolo meridionale della costa di Tel Aviv.
Se proseguissero su Yaffet street potrebbero notare una porticina e una scala stretta, appena dopo una tavola calda che sforna felafel e hummus. Oltre la porta, una scala stretta e ripida porta alla sede della Lega dei arabi di Giaffa, la Rabitah. È il municipio ufficioso che cerca di risolvere i problemi dei ventimila arabi, cittadini israeliani, che vivono a Giaffa e sono tutto ciò che resta di una delle più colte, attive, cosmopolite e vibrati comunità urbane del Medio Oriente. Prima del 1948, della Nakba e della guerra seguita alla dichiarazione di indipendenza dello stato di Israele, Giaffa era la porta della Palestina del mandato britannico. Nel suo porto arrivavano anche le navi degli ebrei. Ancor prima del mandato, era, assieme ad Alessandria d’Egitto e Tiro, uno dei porti per antonomasia del Medio Oriente. Al municipio della città araba di Giaffa chiesero il permesso le sessanta famiglie ebree che nel 1908 fondarono, in un canalone tra le dune di sabbia, Tel Aviv. Oggi quel canalone è viale Dizengoff, una delle strade centrali di Tel Aviv, e la Giaffa araba non è che l’ombra di se stessa.
La memoria di Giaffa ha un nome, Gabi Sabed. Nel 1948 la sua fu una delle famiglie che non lasciarono la città allo scoppio di quella che per Israele è la guerra d’indipendenza, e per i palestinesi è la Nakba. Dei 120 mila abitanti, ne rimasero 3900 che furono ammassati dai vincitori in una zona della città sulla sinistra di quella che oggi è Yaffet street e che allora era una recinzione senza nome. Confiscate dallo stato israeliano le proprietà di quelli che erano andati via, agli arabi di Giaffa non rimase che ripartire da zero, come una minoranza. Dove furono ammassati i profughi, c’è ora il quartiere di Ajami. E Gabi, 58 anni di cui 40 investiti a organizzare la sua comunità, ne parla con la mente rivolta al passato per progettare un futuro possibile.
Nella sede della Rabitah ad ascoltarlo ci sono una quarantina di persone, un decimo della delegazione italiana che ha risposto all’appello della Tavola della pace e del Coordinamento enti locali per la pace per passare una settimana tra Israele e Palestina. Per ascoltare e capire. È la delegazione di Tempo per le responsabilità, la forma che quest’anno ha assunto la marcia per la pace da Perugia ad Assisi. Altre nove delegazioni simili sono in giro per incontri con ogni tipo di organizzazioni sociali e istituzionali israeliane e palestinesi, dagli enti locali ai movimenti pacifisti, dai sindacati alle Ong.
Gabi racconta che dopo il 1948, non c’era un solo arabo iscritto alle scuole superiori di Giaffa. Ci vollero gli anni sessanta per vedere degli studenti arabi nelle scuole superiori e la metà degli anni settanta per avere i primi laureati. Lui è stato uno di loro. Dalla volontà di non perdere la propria identità di arabi, nello stato di Israele, Gabi assieme ad altri suoi coetanei ha fondato nel 1979 la Rabitah. Alle ultime elezioni amministrative di Tel Aviv, la Rabitah è riuscita a vincere anche un seggio, su 31, nel consiglio comunale e oggi è una realtà istituzionale capace di gestire anche una scuola, la Scuola democratica araba. È l’istruzione il tasto su cui Gabi batte di più: «Il 50 per cento dei bambini e dei ragazzi arabi di Giaffa va nelle scuole pubbliche arabe – dice – il 35 per cento nelle scuole private di ispirazione religiosa, il 15 nelle scuole pubbliche ebraiche. Il problema è che nelle scuole religiose si accentuano le divisioni interne alla comunità araba, tra musulmani e cristiani e tra cristiani cattolici, ortodossi, protestanti o maroniti, mentre il livello delle scuole pubbliche arabe è molto basso, perché sono sottofinanziate dallo stato. In quelle ebraiche, poi, i ragazzi subiscono una narrazione della storia che è completamente diversa da quella che vivono a casa, perdono la lingua e la loro identità». Per questo la Rabitah, da cinque anni, ha la sua scuola, in cui i due aggettivi, araba e democratica, indicano un’intenzione pedagogica ben precisa.
La Rabitah si occupa anche di cercare di frenare l’esodo degli arabi da Giaffa, che continua sotto altre spinte: «La Nakba non è finita nel 1948. Allora, l’espulsione degli abitanti veniva fatta con la forza, oggi con il denaro». Giaffa infatti vive un periodo di riqualificazione edilizia, di gentrification: i costi salgono, le tasse anche e gli arabi, per il 50 per cento al di sotto della soglia di povertà, non possono più permettersi di vivere lì. La Rabitah è riuscita a salvare dalla demolizione molte case arabe, che avrebbero dovuto far posto ai nuovi edifici previsti dal comune di Tel Aviv per «lanciare» Giaffa anche come attrazione turistica, ed è riuscita anche a far costruire 250 nuove case per gli arabi, districandosi nella burocrazia israeliana, ritagliata in modo da discriminare gli arabi, che pure sono formalmente cittadini: «Per un arabo è molto più difficile avere un mutuo da una banca – spiega Gabi – e poi ci sono una serie di facilitazioni nel lavoro per chi ha fatto il servizio militare. Ma noi non possiamo e non vogliamo fare il servizio militare».
Sono solo due dei tanti ostacoli legali che rendono difficile la vita degli arabi cittadini israeliani, una minoranza che arriva al 20 per cento della popolazione di Israele.
La Rabitah cerca di rispondere con l’organizzazione dal basso per tenere viva la comunità: corsi di formazione per i giovani [il 50 per cento degli arabi di Giaffa ha meno di 18 anni], restauro delle moschee [le chiese ricevono fondi dall’estero] e lavoro di lobbying politico, per cercare di rimuovere gli ostacoli formali alla piena cittadinanza.
Sembrano, a sentirli elencare così, i problemi di una qualsiasi periferia depressa delle metropoli occidentali. Se non fosse che dalle finestre ad arco della sede della Rabitah filtra una luce diversa, una sfumatura che c’è solo da questa parte del Mediterraneo.
Fadi Shmeta è, in un certo senso, il prodotto del lavoro di Gabi. Giovane, cordiale, fa parte del direttivo dell’associazione Sadaka Reut, Arab jewish youth partnership, che ha la sua sede principale a Giaffa. Con una serie di vecchie foto della Giaffa prima della Nakba, Fadi racconta il quartiere di Ajami e spiega come, al di là delle responsabilità politiche dei governi nella guerra del 1948, la trasformazione di Giaffa in un’appendice di Tel Aviv sia avvenuta dopo la guerra: «La combinazione della legge sull’emigrazione, che prevede che solo gli ebrei possano emigrare in Israele, e quella della proprietà di chi è andato via dal paese hanno fatto sì che Giaffa cambiasse totalmente faccia». Degli agrumeti di un tempo, che davano lavoro a migliaia di persone, non resta nulla se non qualche albero ornamentale. Nulla resta del vecchio teatro, che aveva ospitato anche compagnie europee ed era uno degli occhi dell’elite culturale di Giaffa sul resto del mondo. Non resta nulla della vita culturale della città araba, se non una tipografia aperta dalla Rabitah. Di nuovo, invece, c’è la volontà di affermare un’identità complessa, che non si limita a contemplare le foto in bianco e nero per sognare «un tempo che non tornerà», ma guarda alla sfida di costruire, in Israele e anche con gli israeliani che accettano di farlo, un’identità nuova, da cittadini di uno stato che si percepisce come democratico ma di fatto e di diritto discrimina un’ampia fetta della sua popolazione. «Il nostro lavoro è innanzi tutto con le scuole – spiega mentre conduce la delegazione tra le case di Ajami – cerchiamo di portare una pedagogia critica che provi a decostruire la narrazione dominante sul 1948 e sulla realtà odierna di Israele per rafforzare invece la narrazione araba. Riequilibrando le due narrazioni, si può iniziare a ridare fiducia e capacità ai giovani arabi che saranno il futuro di Giaffa». È un futuro ancora lontano, faticoso perfino da pensare. Ma con solide radici in una memoria che riaffiora in ogni angolo di strada come in ogni frase di Gabi Abed.

Enzo Mangini (Carta)

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