giovedì 15 ottobre 2009

In viaggio per la pace



Siamo arrivati in quattrocento dall'Italia, persone singole, rappresentanti di associazioni e amministratori locali per questa settimana della pace in Israele e Palestina, organizzata dalla Tavola
della Pace. Questa missione e' la piu' grande e numerosa dopo parecchi anni, almeno per quanto riguarda la Terra Santa. Per me e' la prima volta dopo la mia espulsione avvenuta nel 2002 quando un gruppo dipacifisti voleva raggiungere Gerusalemme per partecipare ad una manifestazione di solidarieta' con il popolo palestinese. Da quella volta non avevo piu' avuto occasione di partecipare ad alcuna missionedi pace in Palestina, almeno passando da Israele. Mi sono aggregato
volentieri alla carovana, in rappresentanza della Rete degli Artisti contro le guerre e per promuovere nell'occasione la marcia mondiale per la pace che e' da poco iniziata.

Sabato 10 ottobre:
Arrivo a Tel Aviv e pernottamento a Betlemme. Subito dopo il nostro arrivo abbiamo avuto un incontro in una sala del Comune di Betlemme. Erano presenti anche il Sindaco di Betlemme, il governatore della regione e il portavoce del Consolato italiano. Abbiamo fatto il punto sulla
settimana di pace e ci siamo scambiati le prime impressioni. Era presente Flavio Lotti della Tavola della Pace, Sergio Bassoli del Coordinamento delle ONG per la pace in Medio Oriente e Luisa Morgantini.

Domenica 11 ottobre:
Il giorno dell'incontro nei territori palestinesi. Il gruppone e' stato suddiviso in gruppi con altrettante destinazioni. Il nostro gruppo si e' recato ad Hebron. Qui abbiamo avuto un primo incontro con il sindaco della citta'. In quella occasione ho proposto al sindaco una collaborazione tra il Comune di Hebron e la Rete Artisti. In seguito abbiamo fatto un tour del centro storico con destinazione finale la moschea di Abramo. Poi pranzo offerto dal Comune e a seguire visita al campo profughi di Al Fawatt nei pressi di Hebron. In quella circostanza abbiamo avuto un incontro con il coordinatore del campo che ci ha illustrato i problemi passati e presenti e la speranza per un futuro migliore. Questo campo ha 17.000 abitanti ed e' uno dei 19 campi profughi presenti in Palestina dal 1948. Mi si conceda un sorriso amaro scrivendo queste righe pensando che a tutt'ora a piu' di 60 anni di distanza queste persone ormai alla terza generazione continuano a vivere in queste condizioni, qui in
Palestina e altrove, come ben sappiamo. Fatto comune a tutti i campi, un terzo dela popolazione lavora in territorio israeliano e piu' della meta' degli abitanti e' al di sotto dei 18 anni. In serata rientro a Betlemme.

Lunedi' 12 ottobre:
Giorno dell'incontro nei territori israeliani (ho scelto io questa definizione, giacche' si parla anche di
territori palestinesi). Abbiamo visitato dapprima il centro culturale di Mossawa a Haifa. Ivi abbiamo avuto un incontro con una rappresentante delle Donne in nero che ci ha brevemente illuistrato le
iniziative di pace di questo gruppo di donne che collabora con i pacifisti palestinesi. A seguire un incontro istituzionale con due consiglieri dell'amministrazione comunale di Haifa a cui abbiamo
rivolto diverse domande che pero' in parte sono rimaste sul tavolo, tipo l' uguaglianza tra palestinesi e israeliani. Sui particolari tornero' magari in seguito. Haifa e' la terza citta' israeliana, maggiore porto e anche centro universitario(il 20% degli studenti sono arabi). Dopo l'incontro abbiamo fatto un breve giro nella citta' fantasma nel centro di Haifa, ossia un quartiere che era stato abitato
dai palestinesi, che poi successivamente e' stato evacuato e adesso sta per essere ristrutturato per poi essere messo in vendita al miglior offerente. Dopo Haifa ci siamo diretti in un villaggio palestinese
sulla costa a sud di Haifa. Questo villaggio si trova nella regione storica della Cesarea e conta piu' di settemila abitanti. Dopo un breve incontro con i responsabili del villaggio, abbiamo avuto un momento conviviale sulla bellissima spiaggia di questo villaggio. Dopodiche' abbiamo avuto ancora il tempo di visitare il sito romano di Cesarea, il cui nome e' dovuto a Giulio Cesare che si era recato in quei luoghi.

Martedi 13 ottobre:
Giorno dell'Europa. Convegno internazionale a Gerusalemme, a cui hanno partecipato vari relatori provevienti da diversi paesi europei, tra cui Janet Aviad, autrice e docente all'univesita' di Gerusalemme, Sari Nusseibeh, professore all'Al-Quds Univesity, Christian Berger, della Commissione Europea, Micheal Sabbath, patriarca latino di Gerusalemme, Jose Maria Ruiberriz,
dell'Assemblea di Coopearzione per la Pace in Medio Oriente ACPP, Sergio Bassoli, direttore della piattaforma delle ONG italiane per il Medio Oriente. Le conclusioni sono state fatte da Luisa Morgantini e da Naomi Chazan, ex parlamentare della Knesset e docente di scienze politiche. La conferenza e' stata moderata dal giornalista del Messaggero Eric salerno e da Paola Caridi, giornalista di Lettera 22. Il pomeriggio e' stato dedicato alla visita della citta vecchia con
seguente ricevimento e buffet per tutti i partecipanti all'Hotel Ambassador. A seguire giro della citta' by night.

Mercoledi' 14 ottobre:
Il giorno della pace. Visita al campo profughi a Gerusalemme sud gestito dall' UNRWA, Agenzia per i rifugiati dell'ONU. Qui abbiamo avuto un incontro con il Direttore del campo e con i suoi
collaboratori. Le stesse considerazioni fatte per il campo di Hebron valgono anche per questo. A seguire abbiamo visitato il Museo dell'Olocausto Yad Vashem. Dopo una cerimonia durante la quale e' stata consegnata una corona di fiori a ricordo delle vittime del nazismo e la consegna di uno striscione da parte dell'associazione Terra del Fuoco che organizza da sette anni il treno della memoria per Auschwitz, visita al museo. Commenti superflui. In serata abbiamo avuto un incontro con l'Associazione dei parenti delle vittime palestinesi ed israeliane all'Auditorium del Centro Notre Dame e a seguire "Ricostruiamo la speranza", manifestazione  per la pace, a cui ha partecipato anche la cantante israeliana Noah.

Edvino Ugolini
per la
Rete Artisti

Miseria e dioassina


La giornata è iniziata con la visita ad un altro campo profughi, Shu’Fat, vicino a Gerusalemme. La situazione lì è insostenibile, Israele ha chiuso l’acqua e impedisce ai camion carichi di spazzatura di uscire.

La conseguenza di tutto ciò è la miseria. Miseria e diossina. Ci sono quasi in tutte le vie del campo mucchi di pattumiera che brucia, e l’aria è nauseabonda. Irrespirabile.

Ad un certo punto un bambino è venuto da me, avrà avuto 8 anni. Voleva solo “battermi il 5” e conoscermi, mi ha sconvolto. La sua mano era gonfia e piena di cicatrici, aveva tagli recenti lungo tutta la mano e il braccio. Forse è caduto sul filo spinato.

Qui la tensione è alta, il coinvolgimento emotivo sale, e una mia compagna di viaggio ha pianto tutto il giorno.

Poi verso sera torniamo al dialogo di Pace. Robi Damelin e Ali Abu Awwab parlano insieme. Lei è Israeliana, e suo figlio è stato ucciso dalla “resistenza”, lui è Palestinese, e suo fratello è stato ucciso da un militare Israeliano ad un CheckPoint. Entrambi vogliono la fine di questo conflitto.

Forse è perché sono uniti da un così grande dolore comune, ma la forza che hanno insieme ci ha dato speranza. La speranza che il dialogo tra i due popoli possa portare la Pace.

Ilo Steffenoni

Israele e Palestina: la via dolorosa per la riconciliazione


Robi e Ali, lei israeliana, palestinese lui, riversano le loro testimonianze sulla nostra delegazione con una sbalorditiva cascata di nuove prospettive. A dire il vero, riversano anche la sensazione che qualcosa nei nostri posizionamenti di concerned citizens, di cittadini appassionati alla loro causa, non vada. Quanto meno, non vada più. Le nostre domande riflettono “platitudes”, piattaforme interpretative, nella quali nessuno dei due si ritrova. Si intuisce ad ascoltarli l’urgenza di un nuovo punto di vista, e loro di certo un punto di vista particolare e incontestabile da mettere sul tavolo ce l’hanno. Sono la madre ed il fratello di persone che hanno perso la vita a causa della violenza acuminata che lacera da sessanta anni israeliani e palestinesi. Familiari delle due comunità, accomunati da simili storie di morte e dalle stesse umane lacerazioni, hanno dato vita al Parents’ Circle Forum per metabolizzare il dolore in energia unificante, l’angoscia personale in forza di riconciliazione collettiva.

Robi ha piglio di donna colta tagliata con l’accetta. E’ ebrea sudafricana, arrivata qui nei primi anni ’70 per “salvare” Israele e spargere su questa terra i semi della battaglia democratica contro l’apartheid di cui era stata protagonista. Suo figlio David, 27 anni, è stato ucciso da un cecchino palestinese mentre - come riservista - prestava servizio ad un check point. Non gli era stato facile accettare la chiamata dell’esercito israeliano, lui pacifista ed interessato allo studio di filosofia più che alle armi. C’era la questione della coerenza con le sue motivazioni contro la guerra, e l’impatto della sua assenza dall’università. D’altro canto, sentiva la responsabilità di condividere un approccio diverso di stare sul crinale della tensione: una scuola di mediazione da insegnare ai soldati sotto il suo comando. “Perché è facile vedere tutto in bianco e nero, mentre c’è un vasto grigio che avvolge la complessità delle cose”, dice Robi. La decisione, meditata, ha portato David a morire proprio sulla disumanizzante frontiera della burocrazia securitaria che i palestinesi sono costretti ad attraversare per mille motivi ogni giorno.

Robi lo dice chiaro e tondo: la pace “non è un percorso cortese di fiori e abbracci” piuttosto un viaggio personale incidentato. Si trattiene per un momento, poi si lascia andare e decide di condividere un inciampo recente, di questo viaggio. La lettera che ha scritto tre anni fa al cecchino che gli ha ucciso il figlio ha ricevuto una risposta solo da qualche giorno: parole ancora segnate da feroce violenza. La nuova fitta di disperazione e lo stato di confusione penetrano la scorza della madre, ma impongono la forza di continuare il percorso: esso altro non è che l’avvio di un dialogo, il primo zoppicante passo di avvicinamento alla narrativa della controparte ostile, non più nemica.

Serve un “miracolo pragmatico di riconciliazione” , una cornice di riferimento per la pacificazione tra palestinesi e israeliani, un tracciato di umanizzazione dice Robi: simile a quello, inimmaginabile, dei neri e bianchi sudafricani. Palestinesi e israeliani nulla conoscono dei rispettivi bisogni. I Parents’ Circle conoscono bene l’incolmabile cesura percorrendo i territori accidentati del dolore individuale dei due popoli. Lo sanno attraverso le numerose incursioni nelle scuole. Gli adolescenti di Israele non hanno mai conosciuto un palestinese, gli arabi dal canto hanno paura degli israeliani ma nulla comprendono della paura ebraica, perché ignorano cosa sia stata veramente la Shoah.

Ali ascolta immobile, in piedi sul palco accanto a lei. Osserva Robi con lo sguardo del compagno di viaggio sopravvissuto ad un’avventura comune. Sospira, quando tocca a lui parlare. Il peso dell’emozione che non può spegnersi, ma anche la responsabilità del messaggio. Come far comprendere a questo inedito gruppo di italiani le implicazioni del loro punto di vista? Quella di Ali è proprio un’altra storia. La sua carriera di combattente è assai precoce, l’attivismo politico lo ha imparato da una madre militante e per questo periodicamente confinata nelle carceri israeliane, cinque anni alla volta. Ci finisce presto anche lui in galera, dove si ritrova a guidare uno sciopero della fame di 5000 detenuti per 17 giorni, spuntandola sui carcerieri. L’episodio gli insegna la forza dirompente della resistenza nonviolenta. Una scuola estranea alla militanza palestinese, che la confonde con la resa al nemico. La nonviolenza è invece oculata strategia per disarmare la controparte, inceppare il meccanismo della guerra. Nel 1994, grazie alla pace di Oslo, viene rilasciato con la madre, ed esce con una visione rinnovata di sé e della battaglia da condurre: quella della necessità di “passare dalla rivoluzione alla cittadinanza”. Ali viene ferito da un colono nel 2000, e poco dopo suo fratello è colpito a morte da un colono israeliano “per nessun altra ragione se non perché lui era un palestinese”. La nonviolenza è pericolosa per l’assassino. Costringe a guardare in faccia le sue vittime. Ali pertanto decide di non vendicarsi, esce dal gioco del chi è più vittima. Ogni uccisione è un crimine, e nessuna escalation può portare alla pace, al “gusto di una vita normale”, servono azioni che possano “creare soluzioni”. Più volte invoca la nascita di un movimento globale per palestinesi ed israeliani, un movimento che sappia costringere entrambi alla pace.

Libertà per la Palestina, sicurezza per Israele: questa la soluzione. Basta con le soluzioni calate dall’alto di conferenze di pace in hotel a cinque stelle. Occorre un divorzio da Israele, per vivere in pace e dignità. “Voglio proteggere i confini di Israele perché voglio avere un confine con Israele, un confine in grado di garantire i diritti ai palestinesi, compreso quello di andare al mare”. Ali è disposto a tutto pur di ottenere questo obiettivo, la fine dell’occupazione israeliana, per uno stato palestinese. “Non voglio vedere ragazzi israeliani che occupano i nostri territori, come non voglio vedere ragazzi palestinesi indottrinati alla ideologia della violenza”. Quante persone devono ancora pagare con la vita, quante famiglie devono soffrire prima di meritare una vita libera ed in pace? E poiché nessuno dei due popoli è destinato a scomparire, la pace non può essere chiesta in elemosina. Costruzione della pace non è solo speranza, è anche responsabilità.

La diplomazia internazionale dovrebbe incontrarli questi campioni della politica, capaci di creatività e di empatia. Presto, se non vogliamo perdere quest’ultima chance per una soluzione.

Nicoletta Dentico