giovedì 15 ottobre 2009

Israele e Palestina: la via dolorosa per la riconciliazione


Robi e Ali, lei israeliana, palestinese lui, riversano le loro testimonianze sulla nostra delegazione con una sbalorditiva cascata di nuove prospettive. A dire il vero, riversano anche la sensazione che qualcosa nei nostri posizionamenti di concerned citizens, di cittadini appassionati alla loro causa, non vada. Quanto meno, non vada più. Le nostre domande riflettono “platitudes”, piattaforme interpretative, nella quali nessuno dei due si ritrova. Si intuisce ad ascoltarli l’urgenza di un nuovo punto di vista, e loro di certo un punto di vista particolare e incontestabile da mettere sul tavolo ce l’hanno. Sono la madre ed il fratello di persone che hanno perso la vita a causa della violenza acuminata che lacera da sessanta anni israeliani e palestinesi. Familiari delle due comunità, accomunati da simili storie di morte e dalle stesse umane lacerazioni, hanno dato vita al Parents’ Circle Forum per metabolizzare il dolore in energia unificante, l’angoscia personale in forza di riconciliazione collettiva.

Robi ha piglio di donna colta tagliata con l’accetta. E’ ebrea sudafricana, arrivata qui nei primi anni ’70 per “salvare” Israele e spargere su questa terra i semi della battaglia democratica contro l’apartheid di cui era stata protagonista. Suo figlio David, 27 anni, è stato ucciso da un cecchino palestinese mentre - come riservista - prestava servizio ad un check point. Non gli era stato facile accettare la chiamata dell’esercito israeliano, lui pacifista ed interessato allo studio di filosofia più che alle armi. C’era la questione della coerenza con le sue motivazioni contro la guerra, e l’impatto della sua assenza dall’università. D’altro canto, sentiva la responsabilità di condividere un approccio diverso di stare sul crinale della tensione: una scuola di mediazione da insegnare ai soldati sotto il suo comando. “Perché è facile vedere tutto in bianco e nero, mentre c’è un vasto grigio che avvolge la complessità delle cose”, dice Robi. La decisione, meditata, ha portato David a morire proprio sulla disumanizzante frontiera della burocrazia securitaria che i palestinesi sono costretti ad attraversare per mille motivi ogni giorno.

Robi lo dice chiaro e tondo: la pace “non è un percorso cortese di fiori e abbracci” piuttosto un viaggio personale incidentato. Si trattiene per un momento, poi si lascia andare e decide di condividere un inciampo recente, di questo viaggio. La lettera che ha scritto tre anni fa al cecchino che gli ha ucciso il figlio ha ricevuto una risposta solo da qualche giorno: parole ancora segnate da feroce violenza. La nuova fitta di disperazione e lo stato di confusione penetrano la scorza della madre, ma impongono la forza di continuare il percorso: esso altro non è che l’avvio di un dialogo, il primo zoppicante passo di avvicinamento alla narrativa della controparte ostile, non più nemica.

Serve un “miracolo pragmatico di riconciliazione” , una cornice di riferimento per la pacificazione tra palestinesi e israeliani, un tracciato di umanizzazione dice Robi: simile a quello, inimmaginabile, dei neri e bianchi sudafricani. Palestinesi e israeliani nulla conoscono dei rispettivi bisogni. I Parents’ Circle conoscono bene l’incolmabile cesura percorrendo i territori accidentati del dolore individuale dei due popoli. Lo sanno attraverso le numerose incursioni nelle scuole. Gli adolescenti di Israele non hanno mai conosciuto un palestinese, gli arabi dal canto hanno paura degli israeliani ma nulla comprendono della paura ebraica, perché ignorano cosa sia stata veramente la Shoah.

Ali ascolta immobile, in piedi sul palco accanto a lei. Osserva Robi con lo sguardo del compagno di viaggio sopravvissuto ad un’avventura comune. Sospira, quando tocca a lui parlare. Il peso dell’emozione che non può spegnersi, ma anche la responsabilità del messaggio. Come far comprendere a questo inedito gruppo di italiani le implicazioni del loro punto di vista? Quella di Ali è proprio un’altra storia. La sua carriera di combattente è assai precoce, l’attivismo politico lo ha imparato da una madre militante e per questo periodicamente confinata nelle carceri israeliane, cinque anni alla volta. Ci finisce presto anche lui in galera, dove si ritrova a guidare uno sciopero della fame di 5000 detenuti per 17 giorni, spuntandola sui carcerieri. L’episodio gli insegna la forza dirompente della resistenza nonviolenta. Una scuola estranea alla militanza palestinese, che la confonde con la resa al nemico. La nonviolenza è invece oculata strategia per disarmare la controparte, inceppare il meccanismo della guerra. Nel 1994, grazie alla pace di Oslo, viene rilasciato con la madre, ed esce con una visione rinnovata di sé e della battaglia da condurre: quella della necessità di “passare dalla rivoluzione alla cittadinanza”. Ali viene ferito da un colono nel 2000, e poco dopo suo fratello è colpito a morte da un colono israeliano “per nessun altra ragione se non perché lui era un palestinese”. La nonviolenza è pericolosa per l’assassino. Costringe a guardare in faccia le sue vittime. Ali pertanto decide di non vendicarsi, esce dal gioco del chi è più vittima. Ogni uccisione è un crimine, e nessuna escalation può portare alla pace, al “gusto di una vita normale”, servono azioni che possano “creare soluzioni”. Più volte invoca la nascita di un movimento globale per palestinesi ed israeliani, un movimento che sappia costringere entrambi alla pace.

Libertà per la Palestina, sicurezza per Israele: questa la soluzione. Basta con le soluzioni calate dall’alto di conferenze di pace in hotel a cinque stelle. Occorre un divorzio da Israele, per vivere in pace e dignità. “Voglio proteggere i confini di Israele perché voglio avere un confine con Israele, un confine in grado di garantire i diritti ai palestinesi, compreso quello di andare al mare”. Ali è disposto a tutto pur di ottenere questo obiettivo, la fine dell’occupazione israeliana, per uno stato palestinese. “Non voglio vedere ragazzi israeliani che occupano i nostri territori, come non voglio vedere ragazzi palestinesi indottrinati alla ideologia della violenza”. Quante persone devono ancora pagare con la vita, quante famiglie devono soffrire prima di meritare una vita libera ed in pace? E poiché nessuno dei due popoli è destinato a scomparire, la pace non può essere chiesta in elemosina. Costruzione della pace non è solo speranza, è anche responsabilità.

La diplomazia internazionale dovrebbe incontrarli questi campioni della politica, capaci di creatività e di empatia. Presto, se non vogliamo perdere quest’ultima chance per una soluzione.

Nicoletta Dentico

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