martedì 27 ottobre 2009

Indimenticabile esperienza


10 OTTOBRE 2009 I giorno: Betlemme IL MURO
Accoglienza presso il Comune di Betlemme
Arriviamo con il nostro autobus dall’Aeroporto di Telaviv e ci dirigiamo a Betlemme. Ci accoglie il primo check point israeliano che ci porta anche alla prima porzione di muro. Una costruzione impressionante e inquietante, che non può lasciare indifferenti.
Arrivati a Betlemme ci raccogliamo alla Piazza della Natività immediatamente di fronte al Municipio della Città, dove ci aspetta l’incontro con le Autorità Locali e gli organizzatori.
Abbiamo intrapreso questo viaggio per vedere e ascoltare con l’obbiettivo di raccontare la realtà dei fatti che viviamo nel modo più vero possibile. Ecco il primo momento dell’ascolto.
Nella Vienna Hall del comune di Betlemme, il Sindaco Victor Batarsh, ci dà il suo benvenuto ricordando che il primo gemellaggio tra Betlemme e l’Italia risale al 1962 grazie a Giorgio La Pira; oggi le città gemellate sono più di 20. E’ quindi per lui un piacere averci in Palestina ed in particolare a Betlemme e subito, quasi a sorpresa, in modo deciso e forte ci cala nella condizione di sofferenza del suo popolo.
Il MURO, dice, ha ormai condizionato tutti gli aspetti della vita quotidiana e opprime tutti i palestinesi, siamo un popolo stremato dall’occupazione. Vogliamo la pace e la sicurezza, ma siamo convinti che queste due condizioni non si possono conquistare con la sofferenza. Il MURO per noi è solo sofferenza e non potrà portarci altro.
Il Governatore, presente anche lui ad accoglierci, ci dice che è felice di averci in Palestina, perché noi potremo essere testimoni di tutti i soprusi che il suo popolo sta vivendo da parte di Israele. L’informazione, i media, mentono, non danno l’idea della verità dei fatti. C’è bisogno di gente come voi, ci dice, che vede, ascolta e racconta. “Noi ci appelliamo al mondo libero perché ci aiuti a trovare la via della giusta pace. Uno Stato Palestinese autonomo a fianco di uno stato Israeliano autonomo”.
Dopo un breve saluto da parte di Padre Ibraim Faltas e del Console italiano a Betlemme Francesco Santillo (al quale Flavio Lotti rinnova la richiesta di ottenere dalle autorità israeliane che una delegazione questa settimana si possa recare a Gaza) entriamo nel vivo del nostro ascolto grazie alla presentazione che ci viene fatta della situazione Palestinese da parte di una responsabile dell’Ufficio per gli affari umanitari delle Nazioni Unite.
La condizione, soprattutto della striscia di Gaza, è drammatica e si è aggravata con l’embargo che è iniziato da ormai 3 anni. Attualmente entra a Gaza circa il 20% dei beni che entravano prima dell’embargo. Quasi tutte le attività private imprenditoriali hanno chiuso, si sono persi circa 120.000 posti di lavoro, la corrente salta 4 o 5 volte il giorno per mancanza di combustibile e ciò ha un effetto devastante anche dal punto di vista sanitario ed ambientale. 60/80 milioni di litri di acque non depurate sono scaricati nel mare perché il depuratore non ha abbastanza energia per funzionare. Il 95% delle falde acquifere è attualmente non potabile. Esistono innumerevoli progetti già finanziati per risolvere questo problema, ma i materiali sono bloccati dall’embargo.
Dal punto di vista umanitario, la guerra del 2005 è stata devastante per la popolazione. Ai civili non è stata fornita alcuna protezione ed alcuna via di fuga sotto pesanti bombardamenti aerei e di terra. La frontiera è bloccata sia dalla parte di Israele sia da quella dall’Egitto. 100.000 persone hanno cercato di trovare rifugio nelle scuole, anch’esse bombardate. Questa guerra ha portato da 1.300 a 1.400 vittime civili in tre settimane e oltre 5000 feriti.
Ci sono oltre 5 Miliardi di dollari di diversi donatori, pronti per la ricostruzione ma bloccati a causa dell’embargo.

PROTEZIONE, ACQUA E CIBO SONO BENI BASILARI DELL’UOMO E NON POSSONO COSTITUIRE MERCE DI SCAMBIO.
PER QUESTO SECONDO LE NAZONI UNITE ISRAELE DEVE TOGLIERE L’EMBARGO.
Per la Cisgiordania (West Bank) il problema maggior e è lo spazio. Il 60% del territorio è sotto il controllo israeliano, i palestinesi non ottengono i permessi per costruire e molte case sono sotto minaccia di demolizione.
Ci sono circa 600 posti di blocco o ostacoli di vario genere (barriere, cancelli, mucchi di sabbia ecc) oltre a quelli “volanti” che sono circa 70/80 a settimana, dove sono fermate solo le macchine e le persone palestinesi.
Solo internamente a Hebron (città palestinese con numerosi coloni israeliani) ci sono 93 ostacoli.
ll muro, una volta terminato sarà lungo 708 KM e per l’80% è su territorio palestinese e separa palestinesi da palestinesi e i palestinesi dalla loro terra. E’ costato, fino ad oggi 2 Miliardi di dollari.
Esiste un parere consultivo della Corte Internazionale di Giustizia che dichiara illegali le parti del muro costruite in territorio palestinese e ne intima la demolizione.
Il Muro circonda anche Betlemme da nord e Ovest ed ha un effetto devastante sulla città.
Si calcola che i Palestinesi abbiano solo il 13% della superficie del governatorato a disposizione; una parte dei territori è già costruita, un’altra é occupata da colonie o è zona militare chiusa e inaccessibile, oppure é dichiarata da Israele di interesse naturalistico e quindi intoccabile.
Oggi a Betlemme si è raggiunta una densità di popolazione pari a 4650 persone per KM quadrato con 5,7 KM quadrati disponibili a persona.

11 OTTOBRE 2009: Il giorno dell’ascolto e del dialogo nei territori palestinesi occupati.
Villaggi di Swareh, At Twani e Artas.
Percorriamo la strada 60 che da Betlemme porta a Hebron, la strada è affiancata da colonie israeliane che restringono i territori palestinesi fin dagli anni trenta e che sono in continua espansione.
A Swaret incontriamo Hassan che ci racconta dei progetti attivati grazie alla cooperazione internazionale nel suo villaggio e, come sempre accade, ci ringrazia per essere qui, perché diamo a loro la possibilità di parlare e di far conoscere le loro sofferenze. “Noi abbiamo molti amici in Europa, che, quando vengono a visitarci o a portarci il loro appoggio ed aiuto ci danno la forza di continuare a resistere. Siamo un popolo pacifico e lottiamo per opporci alla costruzione del muro anche con l’aiuto di alcune associazioni attiviste israeliane. Abbiamo come nostro primo obiettivo la scuola e la cultura per i nostri ragazzi, che vediamo come unica arma possibile per la futura liberazione della nostra terra”.
Ci raggiunge anche una signora palestinese che ci racconta di suo figlio Omar, ottimo studente che, a suo tempo, ha vinto una borsa di studio in fisica ed è andato a studiare a Trieste e subito dopo a Berlino, dove è stato ucciso in circostanze ancora misteriose e da allora lei si fa chiamare “Mamma di Omar Hassan” ed è così si presenta a noi. Ci racconta dell’esperienza delle donne del villaggio che cucinano cibo biologico per i bambini e i ragazzi delle scuole, ci porta nelle cucine dove le donne ci offrono una bibita di limone e menta, delle focacce e delle torte fatte da loro. Sono gli stessi prodotti che mangiano i bambini delle scuole, sono semplici, poco costosi e sani.
“Mamma di Omar Hassan” afferma che loro sono assolutamente disponibili a vivere al fianco degli israeliani. “Il nostro problema non sono gli israeliani, ma il loro governo. Tutto quello che vogliamo è la pace per vivere una vita normale con le nostre famiglie e sappiamo che è quello che vuole anche la gente israeliana.
Ci portano a vedere le scuole, con aule semplici e i bambini, allegri e scatenati come nelle nostre scuole!
La nostra visita si conclude con gli sguardi, le risa e i saluti dei bimbi “Hallo! Hallo!” e ci dirigiamo al villaggio di At Twani nei pressi della città di Attas.
Incontriamo gli operatori di Operazione colomba che sostengono azioni non violente in territori di guerra. E’ qui perchè gli abitanti di questo villaggio hanno deciso di lottare contro l’occupazione israeliana usando il solo metodo della non violenza. Afez il responsabile del villaggio ci parla della loro incredibile, quanto vera e concreta esperienza di resistenza tramite la non violenza in una situazione di soprusi, violenze e umiliazioni quotidiane.
Il villaggio si trova in zona C e cioè è completamente sotto il controllo israeliano. Le loro case sono tutte sotto ordine di demolizione. Hanno costruito una scuola nel 1998 e una clinica, anch’esse per ordine israeliano andranno demolite alla fine dell’anno. I bambini dei villaggi palestinesi vicini, per andare a scuola hanno 2 possibilità: una strada di circa 2 ore oppure una più corta che però passa nelle immediate vicinanze di una colonia Israeliana. I coloni qui sono violenti e considerano questa terra di loro proprietà per volere di Dio, non esitano ad impaurire, minacciare e colpire i bambini e ragazzi palestinesi, tre operatori di “Operazione Colomba” sono stati pestati e gravemente feriti dai coloni mentre accompagnavano i bambini. Il Governo Israeliano informato della cosa ha dichiarato la strada inaccessibile agli operatori internazionali ed ha organizzato un servizio di scorta per i bambini palestinesi dei villaggi vicini. Li accompagnano e li vengono a prendere. Oggi però la scorta non si é ancora fatta vedere e i bambini sono qui con noi ad aspettare che i soldati, armati, li riportino a casa.
Dal 67 ad oggi gli israeliani tentano in ogni modo di rendere la vita impossibile ai palestinesi perché se ne vadano, la casa di Afez è stata distrutta tre volte, e tre volte ricostruita, lui è stato incarcerato, le terre vicine ad At Twani sono state dichiarate area militare per esercitazioni, sono frequenti gli spari sia di giorno sia di notte e qualche pastore o agricoltore palestinese é stato ucciso.
I militari israeliani ed i coloni lavorano insieme per cacciare i palestinesi.
Le strategie principali usate sono la POLITICA DELLE DEMOLIZIONI, che colpisce case, cisterne, tende e baracche. Nel villaggio dove siamo nel 1999 c’è stata una deportazione di massa assolutamente illegale da parte di Israele dei palestinesi che, dopo 6 mesi, sono ritornati grazie all’azione congiunta di palestinesi e attivisti israeliani.
LA POLITICA DELLE CHIUSURE E DEI BLOCCHI continui blocchi per la gente palestinese che si vuole o DEVE muovere per coltivare le proprie terre o per lavorare. Il Villaggio di AT Twani ha deciso di usare l’arma della non violenza perché Israele cerca lo scontro, nel quale avrebbe facile vittoria, ma ha paura sia dei media sia di una corretta informazione che possono sgretolare la sua propaganda. Le loro azioni non violente hanno spesso avuto ampia risonanza ed hanno ottenuto obbiettivi altrimenti irraggiungibili.
LA POLITICA DELLE COLONIE prevede la confisca sistematica delle terre da parte di coloni israeliani che lì si installano in condizioni vantaggiose dal punto di vista del costo delle case, dei servizi offerti (elettricità, acqua ecc). C’è una piena collaborazione tra l’esercito e i coloni.
I COLONI da parte loro dagli anni 80 ad oggi hanno concentrato la loro violenza sui villaggi vicini, con scorribande ed intimidazioni.
A causa di queste difficilissime condizioni 5 villaggi palestinesi si sono completamente spopolati, ma, grazie al lavoro del comitato non violento e delle organizzazioni d’appoggio internazionali presenti (Italiane e Nordamericane), in 2 di loro è stato possibile riportare la popolazione palestinese, che si sente oggi un po’ più protetta.
…e i bambini continuano ad aspettare la scorta dell’esercito più volte sollecitato telefonicamente dagli operatori di Operazione Colomba.
I coloni hanno avvelenato le acque, le pecore, sradicato alberi, picchiato operatori internazionali e palestinesi del villaggio.
Afez afferma: “Noi abbiamo scelto la non violenza perché Israele accampa come scusa per la costruzione del muro, dei blocchi, per la confisca delle terre il fatto che i palestinesi sono terroristi. Noi stiamo portando avanti la nostra lotta non violenta e sappiamo che è l’unica strada che possiamo e dobbiamo percorrere. Avremo bisogno di tutto l’aiuto possibile della comunità Internazionale, delle ONG e vostro. Ancora per molto, molto tempo”.
Ci offrono il pranzo in una casa povera e decorosa, certamente la più bella del villaggio, che versa veramente in condizioni disperate. Dopo il pranzo decidiamo di supportare Afez e i bambini del villaggio in un’OPERAZIONE NON VIOLENTA, gli operatori ci avvertono: “Non urlate, non reagite, non correte e cercate di comportarvi sempre con tranquillità. State sempre vicini a noi e ad Afez e fate ciò che fa lui” …cosa mai ci chiederanno di fare???
Annaffieremo delle pale di fico d’India piantate da Afez e dai bambini del villaggio nel terreno immediatamente sotto le colonie, in posizione simbolicamente dissuasiva nei confronti dell’ampliamento della colonia.
Sembra incredibile ma un gruppo di bambini in sella ad un asino armati di bottiglie di acqua e un gruppo di persone armate di macchine fotografiche e telecamere che annaffiano delle piante ha fatto sì che sul posto si recasse la camionetta del responsabile per la sicurezza della colonia e due jeep con 5 o 6 soldati armati di tutto punto, che, di fatto, ci hanno cacciato, hanno cacciato Afez e i bambini dalla loro terra, dalle loro piante.
Dopo questa incredibile esperienza che ci fa capire, anche se minimamente, cosa deve provare e sopportare il popolo palestinese di At Twani, il nostro programma prevede la visita alle città di Artas e di Ramallah.
Per informazioni la scorta dei bambini delle scuole è arrivata con alcune ore di ritardo.
La visita ad Artas è più turistica, visitiamo un monastero di suore cristiane che vivono in stretto contatto con una moschea e gestiscono un asilo interreligioso. Un gruppo folkloristico di ragazzi del luogo si esibisce in due danze. Alle 17.30 circa partiamo per Ramallah senza mai arrivarci. Siamo bloccati al Ceck Point di Betlemme e fatti scendere per i controlli dei passaporti; peccato che prima di noi ci siano almeno altre 200 persone…passiamo il ceck point (un’esperienza che mette notevolmente a disagio noi italiani, immaginiamo cosa sia per i palestinesi questa pratica che per molti è una costrizione quotidiana!) e poi, ormai troppo in ritardo sulla tabella di marcia, torniamo in hotel.


12 OTTOBRE 2009 III giorno: Il giorno dell’ascolto e del dialogo in Israele.
Visita degli insediamenti (settlements)
Oggi il nostro programma prevede la visita di alcune colonie israeliane in territorio palestinese, fin da subito appare chiaro che non sarà precisamente una giornata dedicata all’ascolto, in quanto non abbiamo il permesso di entrare nelle colonie, potremo osservarle solo da fuori e grazie all’aiuto di una guida israeliana, Noa, operatrice dell’Associazione Peace Now, cercheremo di capire di più. Un colloquio vero e proprio con i coloni è escluso.
Passeremo attraverso il ceck point di HIZME per raggiungere poi i “settlements” (insediamenti) di Geva Benayamin, Ofra,Halamish, Nialeen Village e Modiin Ilit, oltre all’Out post GIVA ASAF.
Nella West Bank ci sono oggi circa 120 insediamenti israeliani “legali”e più di 100 insediamenti “ illegali”, i così detti Out Post, che sono in sostanza colonie che hanno occupato terreni di proprietà privata dei palestinesi e sono considerati fuori legge anche da Israele, che però non mette in atto azioni per evacuarli.
Prima di iniziare il nostro viaggio don Tonio dell’Olio, che oggi ci accompagna, ci dice che per questa giornata, che stiamo per vivere e che segue la nostra visita di ieri nei territori palestinesi, dove abbiamo toccato con mano la sofferenza e le privazioni di questo popolo, dovremmo ricordare un proverbio indiano (cultura certamente lontana da questa, dove siamo) e che dice “Prima di giudicare l’altro fai 7 miglia nei suoi sandali”.
La cosa appare subito molto difficile: ci portano a visitare la tenda di una donna palestinese cacciata dalla sua casa, che si è accampata qui a Gerusalemme per protesta e vive con i suoi figli di fronte alla sua casa, oggi occupata da israeliani Il marito è stato ucciso. Dal tetto della casa di fronte alla tenda i coloni ci fotografano con i cellulari e noi non possiamo fare a meno di fotografare loro e di stringerci attorno alla tenda della donna che sta dando da mangiare ad un bimbo che non avrà ancora 2 anni. Gli uomini della sua famiglia sono oggi a Hebron per protestare. I giornalisti di RAI 3 la intervistano e chiedono un’intervista anche agli israeliani, che però rifiutano, saranno ben lieti di rispondere alle domande ma non ora, che la giornalista lasci i recapiti e loro chiameranno. Così iniziamo la nostra giornata e il nostro viaggio di approfondimento nei confronti delle colonie israeliane.
Al ceck point di Hizme ci fermiamo con Noa che vuole illustrarci la situazione generale delle colonie nella West Bank, subito arriva una camionetta con 3 soldati israeliani, pensiamo che ci vogliano cacciare, invece dicono a Noa di proseguire e si fanno intervistare da alcuni di noi e dai giornalisti. Sono ragazzi tra i 19 e 22 anni, dicono che sono qui per proteggere Israele dagli attacchi dei terroristi, che non hanno nulla contro i palestinesi, ma sembrano molto a disagio se si approfondisce la questione: perché secondo te attaccano i palestinesi? È giusto secondo te che tu debba essere qui a controllarci?...
Dagli accordi di Oslo la West Bank è suddivisa in 3 aree, l’area A sotto il controllo palestinese, l’area B che è giuridicamente sotto il controllo palestinese, ma militarmente sotto quello Israeliano e la zona C completamente sotto il controllo di Israele. I palestinesi non possono entrare nella zona C e gli Israeliani non possono entrare nelle zone A Bisogna però osservare che le aree C circondano completamente le zone sotto il controllo palestinese, soffocando le città ed impedendone qualsiasi sviluppo futuro. Inoltre Israele ha speso e continua a spendere moltissimo per creare un sistema viario che collega le colonie in modo tale da rendere gli spostamenti dei coloni facili e veloci. Si tratta per lo più di strade chiuse ai palestinesi.
Nei pressi di una colonia israeliana scendiamo dal pullman ed abbiamo occasione di parlare con due ragazzi israeliani molto convinti delle loro ragioni, del fatto che Israele debba lottare per conquistare la terra che Dio gli ha assegnato, che gli arabi hanno molti altri posti dove poter vivere e loro difenderanno la loro colonia dal terrorismo degli arabi sempre. Un gruppo di noi si ferma a discutere con loro e ad ascoltarli e poi li salutiamo e ripartiamo.
Noa, che si è sempre tenuta lontana dalla colonia, una volta risaliti sul pullman riceve una telefonata dalla polizia che le chiede se siamo noi il gruppo fermo davanti alla colonia e ci intima di allontanarci subito per evitare scontri. Non è gente abituata alle discussioni. In ogni caso avevamo già ripreso il nostro viaggio.
Vediamo dai finestrini del pullman le colonie e gli out post, costantemente sorvegliate dall’interno dagli addetti alla sicurezza, ci fermiamo poi a Nailin, dove esiste una comunità palestinese che da anni lotta, invano, in modo non violento contro la costruzione del muro.
Il responsabile del comitato non violento è un insegnante d’inglese che ci racconta che dal 1948 la città ha perso 40.000 ettari di terreno e le politiche di confisca continuano. Hanno costruito 5 insediamenti illegali e vi hanno fatto arrivare ebrei ortodossi dall’estero, cacciando i palestinesi dalle loro terre.
La strategia del muro, ci dice il professore, ha una sola finalità: togliere altra terra ai palestinesi. Loro dal 2004 fanno proteste stabili davanti al muro, in prossimità del quale ci portano, e dove hanno perso la vita alcuni manifestanti e almeno due bambini, tra cui suo nipote colpito dalla pallottola di un soldato israeliano.
Anche alcuni internazionali sono stati arrestati o picchiati durante queste manifestazioni e tutti fatti rientrare nel loro paese d’origine.
Lasciando il villaggio di Nailin salutiamo i ragazzi che ci hanno accompagnato al muro e che ci hanno fatto visitare il loro piccolo “museo” che è una stanza piena di fotografie della storia del loro popolo, della loro città e delle manifestazione non violente fermate con la forza dagli israeliani.
Facciamo la nostra ultima tappa a Madin Ilit, uno dei tre maggiori insediamenti israeliani e città di ultra ortodossi.
Ci sono grandi palazzoni bianchi, la scuola, il parco giochi e molte gru al lavoro, a testimoniare che nei fatti il “congelamento” delle colonie non esiste. Qui ad esempio si può continuare a costruire perché si tratta di licenze ottenute prima degli accordi di Oslo e ben 40.000 unità operative potrebbero ancora essere realizzate perché concesse prima del 1993.
Noa ci dice che Peace now ritiene che siccome la west bank non è mai stata annessa ad Israele il governo israeliano potrebbe decidere politicamente il congelamento effettivo delle colonie, revocando le concessioni ottenute prima di Oslo. Il pericolo grande che si intravede, neanche troppo lontanamente, è che le colonie diventino tutte talmente grandi da renderne nei fatti impossibile lo sgombero, come sembra chiaro di Madin Ilit.
Noa ci dice che contrariamente ai coloni che occupano gli Out Post, molti degli israeliani che vivono qui lo fanno perché ottengono delle agevolazioni significative nell’acquisto della casa e nei servizi connessi, acqua, elettricità ecc. Per questo secondo lei una diversa politica da parte di Israele potrebbe produrre effetti buoni dal punto di vista della convivenza tra Israele e la Palestina, il punto fermo deve però essere lo sgombero delle colonie in territorio palestinese.

13 OTTOBRE 2009 IV giorno: Il giorno dell’Europa.
Auditorium Notre Dame Center – Conferenza Internazionale “il ruolo dell’Europa per la pace in Medio Oriente.
La conferenza vuole riflettere, grazie al contributo di eminenti personalità del mondo Istituzionale, culturale e delle ONG (della società civile se così vogliamo dire), sul ruolo che l’Europa ha e dovrebbe avere per contribuire alla dine della guerra israelo-palestinese.
Lo scorso 4 giugno Barak Obama ha detto “Perché arrivi la pace è tempo che tutti assumano le proprie responsabilità” ed ha sollecitato il mondo a raddoppiare gli sforzi per giungere alla definizione di due Stati, Israele e Palestina, perché vivano vicini in pace e sicurezza”.
Il nostro viaggio in questa marcia della pace secondo Flavio Lotti, è dettato non da un pacifismo buonista, ma dalla concreta e reale percezione della tragedia umana che qui si sta compiendo e del fatto che allo stato attuale ci sono tutte le premesse perché questa situazione non migliori. La soluzione del problema Israeliano è strategica e di primario interesse anche per noi, per l’America (com’è stato detto per la prima volta dall’attuale Presidente B. Obama), e anche per l’Europa, che invece continua a tacere.
Il giornalista del Messaggero Erik Salerno coordina i lavori della prima parte della conferenza dedicata alle Istituzioni. Sono presenti Nils Eliasson Console generale svedese a Gerusalemme e Presidente di turno dell’Unione Europea, Christian Bergaer, Rappresentante della Commissione Europea a Gerusalemme, Michael Sabbah Emerito Patriarca Cristiano di Gerusalemme, Sari Nusseibeth Prsidente dell’Università di Al-Quds, Naomi Chazan professoressa emerita di scienze politiche all’Università di Hebrew di Gerusalemme, Ghassan Khatib scrittore e direttore del centro per i media e la comunicazione di Gerusalemme e Janet Aviad autrice e letterata della scuola di educazione della Habrew University di Gerusalemme.
I discorsi dei due rappresentanti dell’Unione Europea Eliasson e Bergaer, sono apparsi deboli ed assolutamente formali e “diplomatici” nel senso peggiore del termine. Hanno entrambi sottolineato che l’Unione Europea agisce nel Medio Oriente nell’orizzonte unico e imprescindibile del rispetto delle leggi internazionali. con lo scopo della creazione di due Stati. L’Unione Europea ha intimato più volte a Israele di evitare provocazioni con l’ampliamento delle colonie o le demolizioni delle case palestinesi, che sono azioni illegali dal punto di vista della legge internazionale. Chiede di mettere fine all’occupazione e di garantire il rispetto dei diritti umani.
E’ chiaro a tutti noi, che abbiamo avuto modo di toccare con mano l’invasività delle colonie israeliane, la violenza degli sgomberi forzati dei palestinesi dalle loro terre per la demolizione delle case, il continuo lavoro di ampliamento interno alle colonie, la mancanza di tutela dei diritti fondamentali per i palestinesi, che queste parole sono dichiarazioni alle quali non è mai seguita un’azione coerente. Questo atteggiamento da parte dell’Unione Europea, non può che allarmarci. Come ha avuto modo di obbiettare Erik Salerno, Israele sa benissimo ciò che è legale e ciò che non lo è, le intimazioni non bastano più, serve altro.
Appare chiaro che è arrivato il momento, per l’Unione Europea, ma anche per tutti gli attori di questo conflitto, di cambiare pensiero, serve uno slancio inedito che guidi una nuova azione, concreta e concertata.
Secondo Janet Aviad anche agli israeliani è chiaro che si dovrà arrivare alla soluzione dei due stati, ma il come e il quando restano confusi, si parla in modo generico di un “processo” che dovrà compiersi, ma senza dare tempi e modalità utili a raggiungere questo scopo. Secondo la Aviad non ci deve aspettare che il Governo Netanyahu si muova in autonomia verso una soluzione giusta della questione. Certo può essere d’accordo sulla soluzione dei 2 Stati, ma in quali termini? Sicuramente svantaggiosi per il popolo palestinese. La sinistra d’altro canto è troppo debole e poco rappresentativa oggi del popolo israeliano, bisogna cercare di parlare alla corrente maggioritaria degli israeliani, muovendoli verso la possibilità di percorrere una strada ben definita che porti alla soluzione dei due stati, con tempi e modi definiti, per il bene di Israele in primo luogo. Israele e gli israeliani devono avere ben chiaro che se non si approderà ad una giusta soluzione Israele avrà un governo sempre più debole e delegittimato a livello internazionale, mentre potrebbe essere a tutti gli effetti un partners culturale e commerciale di grande importanza sia per l’Europa, che per l’America.
Anche secondo Sari Nusseibeth oggi non ci stiamo muovendo verso una soluzione accettabile per la creazione dei due Stati. Lo “Status Quo” sta portando ad una soluzione svantaggiosa per la Palestina: perdita di terre rispetto ai confini del 67, mancanza di garanzie nei confronti dei rifugiati, Gerusalemme est tolta ai palestinesi. Ma queste sono prospettive israeliane, non si tratta di una soluzione giusta del conflitto. Forse, secondo Nusseibeth, non è più il tempo di credere alla soluzione dei 2 Stati ed è invece necessario lavorare in primo luogo perché i diritti umani di tutti siano rispettati e garantiti in un unico stato o in due stati diventa secondario. Forse è il caso che anche la cooperazione internazionale lavori perché gli innumerevoli fondi stanziati fino ad oggi siano usati per scuole, ospedali, sanità e educazione in generale, ma non più per infrastrutture dedicate al futuro stato palestinese. Si veda l’esempio dell’aeroporto di Gaza, costruito con fondi internazionali e demolito in una notte dall’esercito Israeliano.
I soldi della cooperazione devono iniziare ad essere spesi solo ed esclusivamente per realizzare progetti che facciano fare un passo avanti verso la strada della soluzione, altrimenti saranno solo un sollievo temporaneo per i palestinesi dentro un “inferno” senza fine e una riduzione di responsabilità degli israeliani che eviteranno, grazie a questi soldi, di farsi carico delle spese derivanti dalla loro occupazione (come invece prevede la legislazione internazionale).
Michael Sabbat, emerito patriarca cristiano di Gerusalemme, rileva che in Medio Oriente il diritto di fatto e morto e che vige la legge del più forte, senza che la comunità internazionale abbia il coraggio di intervenire, in modo particolare sul Governo di Netanyahu, per far cessare le violenze. E’ necessario iniziare ad agire sugli accordi commerciali e culturali in essere perché Israele rispetti le leggi internazionali Le accuse di antisemitismo non devono impedire che si lavori per il rispetto, ovunque, dei diritti fondamentali dell’uomo. Se l’Europa non agirà nel breve termine in modo concreto sul governo Israeliano, l’Europa resterà nelle conferenze ed il popolo israeliano e palestinese nelle sofferenze.
Nella seconda parte il tema dominante è stato quello della cooperazione internazionale e della assoluta necessità di imprimere una svolta nell’azione perché si determini con grande chiarezza il percorso e le misure da compiere per arrivare alla soluzione dei 2 stati. Come sintetizza bene Sergio Bassoli non è possibile che le ONG costruiscano mentre la politica non consolida e l’occupazione distrugge.
Abbiamo avuto la possibilità di ascoltare i responsabili di diverse nazioni Spagna, Francia, oltre all’Italia impegnate da anni nella cooperazione in Medio Oriente.
A tutti appare chiaro che esiste una responsabilità politica di cui ci si deve far carico; il corto circuito della politica ricade anche sul lavoro delle ONG e della società civile. Appare evidente, quando infrastrutture costruite con i soldi della cooperazione internazionale vengono distrutte da Israele, senza che la Comunità Internazionale intervenga. Questo scandalo deve finire, altrimenti non ha senso investire così ingenti risorse nella cooperazione (anche l’Italia, nonostante la diminuzione dei fondi destinati alla cooperazione internazionale ha mantenuto stabili quelli in medio oriente).
Il rispetto dei diritti umani, il diritto alla vita per primo, deve essere la base imprescindibile di ogni azione politica, non si tratta di diritti revocabili, per nessuna ragione. La Politica non può prescindere da questa prospettiva e non può più lasciare inascoltate le istanze della società civile.
L’intervento di Naomi Chezan ribadisce i principi emersi da questa Conferenza, che dovrebbero guidare i futuri interventi in Medio Oriente: ogni azione deve rispondere a due requisiti, promuovere la formazione di due stati e non avvantaggiare o legittimare l’occupazione israeliana.
Oggi purtroppo non esistono contatti tra israeliani e palestinesi, o sonno molto rari, perché fisicamente impossibili, ma nella forza del dialogo e della società civile risiede la speranza per un futuro di pace.
La Politica ha degli strumenti che deve usare senza paura e con decisione nei confronti di Israele e questi strumenti sono gli “accordi commerciali con Israele” (possibilità di portare in Europa merci senza pagare tasse) che prevedono che se il rispetto dei diritti umani viene meno, l’accordo non è più valido. E’ necessario rispettare questi accordi, prima di tutto per una nostra coerenza.
La politica sarà in grado di essere all’altezza di questa situazione? Il fallimento dell’attuale strategia è chiaro e davanti agli occhi di tutti, le quotidiane ingiustizie e violenze subite dal popolo palestinese, cui fanno da specchio i timori e le paure degli israeliani che vivono sotto l’incubo degli attentati, sono uno scandalo la cui responsabilità è anche della nostra inazione.
La politica deve riacquistare una dimensione di ascolto e di collaborazione nei confronti della società civile, ma deve farlo ora, per il bene di Israele, della Palestina, ma anche delle nostre Nazioni.
Una nota che non ci fa ben sperare in proposito, è il repentino allontanamento dai lavori da parte dei rappresentanti delle istituzioni una volta terminati i loro interventi. La società civile li ha ascoltati e poi si è ritrovata, come troppo spesso accade, a discutere da sola tematiche e richieste di aiuto destinate al mondo istituzionale e politico.

14 OTTOBRE 2009 V giorno: Visita al campo profughi di Shuffat. Giorno della riconciliazione.
Il campo profughi è gestito dall’UNRWA (United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East).) l’Agenzia ONU per i Rifugiati. Il campo è stato fondato dopo la guerra dei 6 giorni nel 67, dal Governo Giordano. Inizialmente vi risiedevano 3.500 persone, attualmente il campo ospita 18.000 rifugiati. Anche per entrare in questo campo è necessario passare un Ceck Point israeliano; il muro in costruzione, proprio nei pressi del campo, renderà ancora più difficoltosi gli spostamenti, già limitati, dei palestinesi del campo. Sulla collina imperano le case dei coloni e nei pressi del campo continuano le demolizioni.
Ci accompagnano nella visita i ragazzi dell’Agenzia ONU per i rifugiati, che ci spiegano e ci fanno vedere ciò che ormai abbiamo imparato a riconoscere da soli: le colonie che stringono i territori palestinesi, il ceck point che controlla gli spostamenti degli abitanti del campo, le case dei palestinesi demolite. A causa della pressione demografica nel campo rifugiati molte case, costruite per essere di uno o due piani, sono diventate case a tre e quattro piani. Nel Medio Oriente dopo il ’48 si contavano 700.000 rifugiati, arrivati oggi alla impressionante cifra di circa 3 milioni e mezzo. I campi profughi dell’UNRWA si trovano a Gaza, Gerusalemme, Giordania, Libia e Siria. L’UNRWA si occupa dei bisogni primari nei campi dei rifugiati: scuole, sanità, servizi in genere. Non è un organismo politico, ma assistenziale ed è finanziato dalla Comunità Internazionale, Filippo Grandi ne è il responsabile qui in Medio Oriente, ed anche lui nel suo discorso di ben venuto ci chiede di raccontare in Italia che, a Gerusalemme ed a Gaza in modo particolare, ancor più che un’emergenza politica si sta verificando una tragedia umanitaria ed umana insopportabile. Dopo i bombardamenti di qualche mese fa (fine dicembre 2008- gennaio 2009) tutte le nazione hanno dato la loro disponibilità per la ricostruzione, ma ad oggi nulla è stato fatto a causa di un embargo ingiusto ed illegale.
Dopo la visita al campo profughi, ci rechiamo a visitare lo YAD VASHEM Il museo dell’olocausto. Una visita preceduta da una cerimonia di commemorazione per le vittime dell’olocausto in cui l’Associazione Torinese TERRA DEL FUOCO presenta il progetto del Treno della Memoria, grazie al quale molti ragazzi delle scuole superiori di tutta Italia hanno l’occasione di viaggiare insieme in treno per visitare il campo di Awshwitz e ricostruire la memoria dei deportati, della loro storia e della storia dell’Europa. Nell’Olocausto, questo abisso dell’umanità che ha inghiottito ebrei, zingari, omosessuali, oltre a chiare ed individuabili responsabilità, ci sono state anche responsabilità meno evidenti nella società civile, molti hanno guardato altrove e sono rimasti nella così detta “Zona Grigia”. Michele Curto il giovane e preparatissimo presidente dell’Associazione Terra del Fuoco ci spiega che i ragazzi del Treno della Memoria testimoniano con questo viaggio la volontà di non essere MAI zona grigia. E aggiunge che il nostro messaggio deve essere che nessuno mai più dovrà essere discriminato e violentato, nessuno in nessun luogo, sia esso ebreo, zingaro, omosessuale, nero o palestinese. Un pensiero che molti di noi hanno avuto sentendo parlare i rappresentanti del museo che ci anticipavano ciò che avremmo visto.
Purtroppo il paragone o meglio, il parallelismo tra ciò che abbiamo visto nel museo dell’Olocausto e la situazione odierna dei palestinesi sorge spontaneo. Al di là di tutte le differenze storiche e politiche che possono esserci, molti palestinesi, di fatto oggi, e l’abbiamo visto con i nostri occhi, subiscono violenze che rendono impossibile uno sviluppo libero della persona, sia a livello fisico, che mentale…questo è quello che sentiamo, quando usciamo dallo Yad Vashem; un luogo che ci ha riportato indietro agli anni bui del terrore e del nazismo, che ci ha fatto conoscere le storie di tanti ebrei cancellati, distrutti: bambini, uomini e donne che hanno perso la loro condizione universale di “uomo”. E una volta fuori questo museo della memoria ci ha dato un bagaglio di conoscenze che non possiamo non impiegare nella lettura del presente, di ciò che accade oggi, qui, in questa terra che si dice “santa”…forse anche molti israeliani potrebbero usare in modo diverso questo bagaglio di storie di sofferenza, angoscia e terrore…forse potrebbero.


Ore 17,00: Auditorium Notre Dame: International Peace Day. Incontro con i parenti delle vittime israeliane e palestinesi.
Abbiamo la fortuna di assistere a questa giornata internazionale della riconciliazione e di conoscere persone straordinarie, che hanno subito perdite importanti ed hanno deciso di trasformare la loro rabbia ed il loro dolore in azione non violenta e di dialogo. Persone con una forza, con uno spirito che abbiamo riconosciuto anche in Afez il capo del villaggio palestinese di At Twani, che ha deciso di combattere con la non violenza i soprusi quotidiani dei coloni e dell’esercito israeliano. Una forza quasi inverosimile, incomprensibile, che però emerge vigorosa e decisa dai loro occhi e dalle loro parole.
Robi Damelin, Rappresentante del foro dei genitori (www.theparentscircle.org; office@theparentscircle.org ): prima di usare la violenza in qualsiasi circostanza guardate i vostri bambini e i loro occhi, abbiamo una responsabilità per il loro futuro, non hanno scelto dove nascere o dove pregare, le loro lacrime sono uguali in tutto il mondo. Non esiste la via della vendetta per la perdita di una persona amata. Mio figlio insegnava all’università ed improvvisamente è stato chiamato per la riserva e non sapeva cosa fare. E’ morto facendo ciò che doveva fare. Recentemente il suo assassino ha scritto una risposta ad una mia lettera, una risposta piena di odio e rancore. Ho avuto l’istinto di rispondere e di esprimere anch’io tutto il mio rancore e la mia rabbia, ma ho compreso che l’unica via sarà sempre quella del dialogo e della riconciliazione. Attualmente la vita degli israeliani e dei palestinesi è totalmente separata. Non ci conosciamo a vicenda, non conosciamo le nostre motivazioni. Dobbiamo abbattere questi muri e conoscerci, parlare, capire insieme come trovare la via giusta per la riconciliazione. Lo dobbiamo anche a noi stessi. Per questo abbiamo creato questa Associazione che organizza anche incontri nelle scuole, perché allo stato attuale delle cose i ragazzi israeliani non conoscono le storie e la vita dei loro coetanei palestinesi, e viceversa. Sentiamo che è questa la strada giusta.
All Abu Awwad è nato in un campo profughi. La madre è stata per 5 anni in prigione per ragioni politiche. Tutti vogliono la pace, ma non sanno cosa fare della loro rabbia, è questo che spinge i ragazzi a farsi esplodere, che spinge i soldati ad essere violenti ai posti di blocchi. Non vogliamo che voi siate pro Palestina o pro Israele, ma a favore di una soluzione. Non c’è sicurezza per Israele senza uno Stato Palestinese e non ci sarà indipendenza per la Palestina se non ci saranno 2 nazioni autonome. Sono stato in prigione per 4 anni e a capo di uno sciopero della fame di 17 giorni di 40000 arrestati. Qui ho visto la grande forza della non violenza, ciò in cui credo e l’essere umano che sono non possono essere attaccati dalla tua violenza. Io sono stato ferito da un colono dopo essere stato liberato e mi hanno mandato in Arabia per le cure mediche, lì ho ricevuto la notizia che mio fratello è stato fermato e ucciso dagli israeliani che gli hanno sparato alla testa solo perché era palestinese. Io so benissimo che mio fratello non era armato. Voglio che ogni singolo ebreo capisca che mio fratello era un uomo. Io però dico all’israeliano che ha ucciso mio fratello che non può controllare la mia reazione e la mia coscienza. Io come palestinese non sono libero, ma come uomo sì. Io non voglio esser la vittima di nessuno e non voglio essere parte di nessun crimine. Come possiamo riconciliarci con il nostro dolore se non siamo liberi di muoverci nella nostra terra, di operare, di incontrare.
Oggi la nostra situazione politica è molto difficile ed io ho paura per il futuro, credo che questo periodo di calma sia il preludio di una grande tempesta se le cose non evolveranno. Per questo abbiamo deciso di operare insieme perché la soluzione deve arrivare da entrambe le parti. Vogliamo che siate nostri messaggeri, che facciate pressione sui governi. Io voglio che la legge mi includa quale persona libera e che protegga tutti i palestinesi, anche le famiglie di Gaza. Io lavoro sul terreno per creare un movimento non violento, ne ho abbastanza di conferenze sulla pace, è necessario lavorare sul terreno e spingere i governi non ha fare conferenze in cui parlano autorevoli rappresentanti ed esperti, ma ad agire. I conosco una verità: che ogni assassinio di un esser umano è e deve essere considerato un delitto. E noi dobbiamo denunciarlo, perseguirlo, fare pressione ed agire. Noi non ci tiriamo indietro dalla pace e vi chiediamo di aiutarci con il vostro cuore, la vostra mente e le vostre azioni. Quando penso alla mia storia, mi chiedo se devo davvero essere io a convincere i palestinesi della necessità della pace, perché credo che sia il mondo intero a dovere convincere me e i palestinesi della necessità della pace. I palestinesi hanno bisogno di giustizia non sappiamo cosa voglia dire vivere in pace, vivere in un paese libero, non sappiamo cosa sia una vita “normale”. Avere uno stato palestinese per noi significherebbe avere pace, giustizia, dignità, libertà. Avere un luogo in cui la gente può scendere in strada ed essere fiera della propria identità per poter costruire la pace. La parola pace è ormai abusata, bisogna finalmente costruire con serietà le condizioni e per farlo, si deve partire dalla Palestina. Una Palestina libera è la condizione necessaria per avere pace e sicurezza. Pace non è solo fede o speranza, ma anche responsabilità.
La sera abbiamo il piacere di assistere ad un concerto con la presenza della cantante Israeliana NOA, qui per testimoniare la sua vicinanza all’Associazione dei parenti delle vittime israeliane e palestinesi, che hanno istituito l’AWARDS della riconciliazione un premio che ogni anno è assegnato ad un palestinese e ad un israeliano che lottano e lavorano per creare pace e dialogo tra i due popoli.
Durante la serata si parla anche di un nostro connazionale Angelo Framartino, giovane ventenne cooperante morto nel 2006 qui a Gerusalemme, per mano di un palestinese, mentre passeggiava con due amiche palestinesi. Un eroe nazionale di cui pochi conosceranno il nome e la storia, che come molti altri ragazzi sono morti in paesi di guerra lavorando per la pace, ed ai quali non sono riservati onori di stato, né le prime pagine dei giornali.


15 OTTOBRE 2009 VI giorno: Il giorno di Gerusalemme. Viaggio tra i profughi palestinesi e in una delle più grandi colonie israeliane.
Ci portano con i pullman a Gerusalemme Ovest, una città moderna, pulita, con parchi, hotels e palazzi, una città diversa rispetto a Gerusalemme est ed anche rispetto alla città vecchia, decisamente arabeggiante. Qui incontriamo ROTTEM, uno splendido ragazzo israeliano, attivista e membro degli ICHAD (Comitato Israeliano contro la demolizione delle case) e del Centro di Informazione Alternativa. Un’associazione che conta tra i membri molti italiani, che lavora per diffondere un’informazione indipendente, alternativa appunto ed alla quale lavorano sia israeliani sia palestinesi.
Rottem ha 28 anni ed ha iniziato il suo impegno politico a 19 anni, quando dopo un anno e mezzo di servizio militare ha rifiutato di continuare de è stato incarcerato. Dopo la prigione ha viaggiato molto ed al suo rientro ha iniziato la sua attività per opporsi alla costruzione del muro in modo particolare e per favorire gli scambi tra israeliani e palestinesi.
Con Rottem visitiamo Gerusalemme e la vediamo da una prospettiva storica e politica. Ci porta alla linea di confine dal 48 al 67, ci porta nel quartiere di MORASHA, dal quale nel 48 sono stati sgombrati i Palestinesi e dove sono stati fatti arrivare dal medio oriente 1 milione di ebrei. La zona era, però già sotto il controllo degli ebrei europei, che vedevano gli ebrei medio orientali come una grande fonte di mano d’opera e li tennero nelle periferie, con servizi scarsi ed in situazione di povertà. Anche oggi la ricchezza è concentrata a Tel Aviv e le zone di confine e periferiche continuano ad essere molto povere. Proprio da questo quartiere è nato negli anni ’70 il movimento israeliano delle PANTERE NERE, per rivendicare migliori condizioni di vita per gli ebrei medio orientali e la fine delle discriminazioni nei loro confronti. Questo movimento ha creato una buona circolazione di idee e si sentiva anche molto vicino ai palestinesi, purtroppo però la guerra del ’70 ha fatto in modo che le minacce esterne ad Israele annientassero ogni dissidenza interna, aumentando lo stato di insicurezza e la necessità di essere uniti sotto il pericolo, così anche il movimento delle pantere nere si dissolse.
Andiamo a fare visita a MARIAM la giovane donna palestinese sfrattata dalla sua casa che ora vive con i suoi familiari in una tenda e che avevamo avuto modo di conoscere qualche giorno fa.
Mariam ci racconta che sono venuti a cacciarli dalla loro casa alle 5 di mattina, mentre tutti dormivano, i bambini (il più piccolo era appena nato) sono stati fatti uscire in pigiama dai soldati con il passamontagna ed armati, anche loro sono dovuti uscire in pigiama e non gli è stato più permesso di rientrare nemmeno per recuperare le poche cose necessarie ai bambini. Facile immaginare il trauma dei più piccoli. Da quel giorno, 3 mesi fa, sono accampati qui, di fronte alla casa occupata dagli israeliani. Gli occupanti vedono il nostro gruppo e chiamano la polizia che arriva immediatamente, con il figlio diciottenne di Mariam, che era stato prelevato 2 ore prima e di cui la madre non sapeva più nulla. Il ragazzo era stato accusato dagli israeliani di averli attaccati la notte scorsa, ma fortunatamente è stato facile dimostrare che di notte lui lavora su un’ambulanza. Ad una nostra domanda su come vede il suo futuro Mariam ci confessa che lei non vede per lei ed i suoi cari alcun futuro “tra pochi giorni faranno sgombrare altre 3 case e quando saranno sgombrate quelle ne faranno sgombrare delle altre e l’Autorità Palestinese non ha più i fondi per mantenerci in albergo. Noi rivogliamo le nostre case, gli israeliani non hanno alcun diritto di portarcele via”.
Lasciamo Mariam sempre più sgomenti.
Ci dirigiamo nell’insediamento di Mahli Adoumin, il più grande vicino a Gerusalemme, dove incontriamo Ghideon, un colono che ha accettato di trascorrere un po’ di tempo con noi.
Viene da New York e si è trasferito qui a 4 anni. E’ porta voce del comune per quanto riguarda i rapporti in inglese. Ci dice che questa “città” (leggi “colonia” ) è la più bella e la più grande di tutte quelle che si trovano nei “territori contesi” (leggi “territori occupati”). Ci mostra orgoglioso i giardini, le belle case con la bandiera israeliana, il comune, i parchi e le scuole. “vedete, quella e la parte di naturale espansione della nostra città. Lì prevediamo di costruire altre 5000 unità immobiliari, per garantir prosperità alla nostra città. Purtroppo ad oggi abbiamo tutti i permessi, ma non siamo ancora riusciti ad iniziare la costruzione per pressioni da parte dell’America e della Comunità Internazionale. Il pericolo è che questo ampliamento non si riesca a fare e che lì arrivino altri terroristi palestinesi che dalle loro case a tre piani sparino contro di noi” gli chiediamo se ci sono stati attentati nell’”insediamento” (per noi di questo si tratta) e lui ci dice “grazie a Dio no”.
…ma la prudenza non è mai troppa (!??)
Proviamo a fargli capire quale è la nostra interpretazione della questione Israelo-palestinese, che è sicuramente diversa dalla sua: per noi le terre che lui chiama “contese” sono in realtà “occupate” e questa è una colonia. Lui ci dice che per lui le cose sono diverse, i territori definiti “contesi” li avrebbe meglio potuti chiamare “LIBERATI…dal terrorismo”; noi lo ringraziamo per essersi trattenuto!
Dopo questo incontro, un po’ inverosimile e molto impressionante, Rottem ci porta da una famiglia di beduini accampata nei pressi della città di Amat.
Questa tribù beduina, originaria del deserto del Negef, nel 48 si é spostata a Hebron e poi a Gerusalemme ( ci abitala quasi 50 anni). Il paesaggio è povero e decisamente desolante. I beduini vivono in baracche, molti fanno ancora pastorizia, altri lavorano nelle città come muratori o nelle aziende agricole, ma il lavoro è sempre meno.
Ci danno un esempio della loro grande ospitalità offrendoci un lauto pranzo e da bere, parlano con noi, ci raccontano, tutti ci salutano con affetto. Le donne non sono con noi, per tradizione devono stare separate, allora noi donne le andiamo a salutare e scopriamo giovani donne già madri di 3 o 4 figli, sorridenti ed ospitali, una di loro parla anche un po’ di inglese e così ci si capisce, ci si sorride e ci si ringrazia a vicenda.
Qui non hanno acqua, né elettricità e le scuole sono molto lontane. Vivono in una situazione precaria, perché spesso sono costretti a spostarsi su altre terre, questa non è la loro terra.
Una visita bellissima un momento di condivisione indimenticabile. Gente povera e umile che ci ha regalato dei momenti che porteremo sempre con noi.


Barbara
Rosaria
Mimma
Luigia
Adriana

lunedì 26 ottobre 2009

Diario di viaggio: Report Palestina


Siamo arrivati in quattrocento dall'Italia, persone singole,
rappresentanti di associazioni e amministratori locali per questa
settimana della pace in Israele e Palestina, organizzata dalla Tavola
della Pace. Questa missione e' la più grande e numerosa dopo parecchi
anni, almeno per quanto riguarda la Terra Santa. Per me e' la prima
volta dopo la mia espulsione avvenuta nel 2002 quando un gruppo di
pacifisti voleva raggiungere Gerusalemme per partecipare ad una
manifestazione di solidarietà con il popolo palestinese. Da quella
volta non avevo più avuto occasione di partecipare ad alcuna missione
di pace in Palestina, almeno passando da Israele. Mi sono aggregato
volentieri alla carovana, in rappresentanza della Rete degli Artisti
contro le guerre e per promuovere nell'occasione la marcia mondiale per
la pace che e' da poco iniziata.

Sabato 10 ottobre:
Arrivo a Tel Aviv e pernottamento a Betlemme. Subito dopo il nostro arrivo abbiamo avuto un incontro in una sala del Comune di Betlemme. Erano presenti anche il Sindaco di Betlemme, il governatore della regione e il
portavoce del Consolato italiano. Abbiamo fatto il punto sulla settimana di pace e ci siamo scambiati le prime impressioni. Era presente Flavio Lotti della Tavola della Pace, Sergio Bassoli del Coordinamento delle ONG per la pace in Medio Oriente e Luisa Morgantini.

Domenica 11 ottobre:
Il giorno dell'incontro nei territori palestinesi. I partecipanti sono stati suddivisi in gruppi con altrettante destinazioni. Il nostro gruppo si e' recato ad Hebron. Qui abbiamo avuto un primo incontro con il sindaco della città. In quella
occasione ho proposto al sindaco una collaborazione tra il Comune di
Hebron e la Rete Artisti. In seguito abbiamo fatto un tour del centro
storico con destinazione finale la moschea di Abramo. Poi pranzo
offerto dal Comune e a seguire visita al campo profughi di Al Fawatt
nei pressi di Hebron. In quella circostanza abbiamo avuto un incontro
con il coordinatore del campo che ci ha illustrato i problemi passati e
presenti e la speranza per un futuro migliore. Questo campo ha 17.000
abitanti ed e' uno dei 19 campi profughi presenti in Palestina dal
1948. Mi si conceda un sorriso amaro scrivendo queste righe pensando
che a tutt'ora a più di 60 anni di distanza queste persone ormai alla
terza generazione continuano a vivere in queste condizioni, qui in
Palestina e altrove, come ben sappiamo. Fatto comune a tutti i campi,
un terzo della popolazione lavora in territorio israeliano e più della
metà degli abitanti e' al di sotto dei 18 anni. In serata rientro a Betlemme.

Lunedì 12 ottobre:
Giorno dell'incontro nei territori
israeliani
(ho scelto io questa definizione, giacché si parla anche di
territori palestinesi). Abbiamo visitato dapprima il centro culturale
di Mossawa a Haifa. Ivi abbiamo avuto un incontro con una
rappresentante delle Donne in nero che ci ha brevemente illustrato le
iniziative di pace di questo gruppo di donne che collabora con i
pacifisti palestinesi. A seguire un incontro istituzionale con due
consiglieri dell'amministrazione comunale di Haifa a cui abbiamo
rivolto diverse domande che però in parte sono rimaste sul tavolo,
tipo l' uguaglianza tra palestinesi e israeliani. Sui particolari
tornerò magari in seguito. Haifa è la terza città israeliana, maggiore porto e anche centro universitario (il 20% degli studenti sono arabi). Dopo l'incontro abbiamo fatto un breve giro nella città fantasma nel centro di Haifa, ossia un quartiere che era stato abitato dai palestinesi, che poi successivamente è stato evacuato e adesso sta per essere ristrutturato per poi essere messo in vendita al miglior offerente. Dopo Haifa ci siamo diretti in un villaggio palestinese sulla costa a sud di Haifa. Questo villaggio si trova nella regione
storica della Cesarea e conta più di settemila abitanti. Dopo un breve
incontro con i responsabili del villaggio, abbiamo avuto un momento
conviviale sulla bellissima spiaggia di questo villaggio. Dopo di ché
abbiamo avuto ancora il tempo di visitare il sito romano di Cesarea, il
cui nome e' dovuto a Giulio Cesare che si era recato in quei luoghi.

Martedì 13 ottobre:
Giorno dell'Europa. Convegno internazionale a Gerusalemme, a cui hanno partecipato vari relatori provenienti da diversi paesi europei, tra cui Janet Aviad, autrice e docente all'università di Gerusalemme, Sari Nusseibeh, professore all'Al-Quds University, Christian Berger, della Commissione Europea, Micheal Sabbath, patriarca latino di Gerusalemme, Jose Maria Ruiberriz, dell'Assemblea di Cooperazione per la Pace in Medio Oriente ACPP, Sergio Bassoli, direttore della piattaforma delle ONG italiane per il Medio Oriente. Le conclusioni sono state fatte da Luisa Morgantini e da Naomi Chazan, ex parlamentare della Knesset e docente di scienze politiche. La conferenza e' stata moderata dal giornalista del Messaggero Eric Salerno e da Paola Caridi, giornalista di Lettera 22.
Il pomeriggio e' stato dedicato alla visita della città vecchia con seguente ricevimento e buffet per tutti i partecipanti al Hotel Ambassador. A seguire giro della città by night.

Mercoledì 14 ottobre:
Il giorno della pace. Visita al campo profughi a Gerusalemme sud gestito dall' UNRWA, Agenzia per i rifugiati dell'ONU. Qui abbiamo avuto un incontro con il Direttore del campo e con i suoi collaboratori. Le stesse considerazioni fatte per il campo di Hebron valgono anche per questo. A seguire abbiamo visitato il Museo dell'Olocausto Yad Vashem. Dopo una cerimonia durante la quale è stata consegnata una corona di fiori a ricordo delle vittime del nazismo e la consegna di uno striscione da parte dell'associazione Terra del Fuoco che organizza da sette anni il treno della memoria per Auschwitz, visita al museo. Commenti superflui. In serata abbiamo avuto un incontro con l'Associazione dei parenti delle vittime palestinesi ed israeliane all'Auditorium del Centro Notre Dame e a seguire "Ricostruiamo la speranza", manifestazione per la pace, a cui ha partecipato anche la cantante israeliana Noah.

Giovedì 15 ottobre:
Giorno di Gerusalemme. La giornata è dedicata alla visita degli insediamenti israeliani a ridosso dei territori palestinesi nel circondario di Gerusalemme. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi ciascuno con destinazioni diverse. Nel corso di questi sopraluoghi sono stati effettuati anche degli incontri con i rappresentanti degli insediamenti. In serata una manifestazione a Betlemme in Piazza della Natività dal nome suggestivo : “La notte delle candele”, una fiaccolata di solidarietà con il popolo palestinese. A seguire un concerto del pianista Luciano Basso nel Centro per la Pace.

Venerdì 16 ottobre
Giorno della riflessione. Alle 9 assemblea finale di tutti i partecipanti. Prima sessione dedicata agli amministratori locali, a seguire la sessione aperta a tutti i partecipanti. Nel corso dell’assemblea è stato fatto il punto dell’esperienza maturata durante la settimana e prospettato le iniziative future. Intanto la prossima marcia perugina-Assisi del 16 maggio 2010. Una manifestazione per la Palestina si terrà il giorno 10 novembre a Bruxelles. E’ stata anche proposto un concorso fotografico che riassuma i momenti più significativi della settimana e un Cd con le opinioni dei partecipanti.
Ci sono stati alcuni interventi finali da parte di gruppi e persone che hanno partecipato all’iniziativa, come per esempio un gruppo di studenti di Verona autodefinitesi “Ambasciatori della pace”. In tale occasione il sottoscritto ha presentato la marcia mondiale per la pace che aveva già avuto due momenti d’incontro i giorni 11 e 12 ottobre a Gerusalemme e Tel Aviv tra una delegazione della Marcia e le autorità locali e ha inoltre proposto una raccolta poetica dedicata alla settimana della pace. Alla fine sono stati sottolineati i tre punti focali per un documento finale ossia: l’appello per Gaza, l’appello di Obama e il richiamo alle responsabilità di ciascuno.

Dopo l’assemblea un gruppo di partecipanti si è diretto a Ramallah per partecipare ad una manifestazione per il diritto all’educazione, nonché arrivati alle porte della città, il passaggio era bloccato dai militari israeliani e così il gruppo ha dovuto fare dietro front. Nel pomeriggio giro turistico sul Mar Morto, dove si è effettuato lo stand up collettivo nell’ambito della campagna mondiale contro la povertà. A seguire visita a Gerico e rientro a Betlemme.

Sabato 17 ottobre
Giorno del rientro in Italia.

Edvino Ugolini
Rete Artisti

Diario di viaggio: Considerazioni sul viaggio in Palestina


Questa settimana della Pace in Palestina è stata una esperienza di conoscenza davvero incredibile e che ha arricchito i partecipanti da diversi punti di vista. Tutto quello che ognuno di noi, come amministratori, singoli cittadini, esponenti di associazioni, sindacati e movimenti, poteva aver acquisito quale bagaglio personale di nozioni e consapevolezza credo che sia risultato stravolto dal contatto diretto con una realtà che nessuna trasmissione televisiva o servizio giornalistico possono rappresentare in maniera completa. Non solo per l’approccio culturale o per l’opzione di fondo che ciascuno ha nel raccontare ciò che vede ma anche e soprattutto per la parzialità che il proprio angolo di visuale comporta. Appare evidente, quindi, che anche ciò che proverò a dire dal mio punto di vista, per quanti sforzi possa fare di astrazione e “neutralità”, risulterà parziale in senso oggettivo (non ho avuto modo di conoscere complessivamente la vicenda di quei luoghi) e soggettivo (difficilmente riuscirò a spogliarmi del mio retroterra culturale e della carica emotiva suscitata da alcuni racconti vissuti, da chi li narrava, in prima persona e sulla propria pelle).
Proverò quindi ad offrire alcune riflessioni che abbiano ben chiare queste premesse e che si pongano l’ambizioso obiettivo di uscire dalla ovvietà e dalla banalità.

Credo infatti che dal punto di vista delle dichiarazioni di intenti nessuno, o quasi, possa dirsi contrario alla pace (a prescindere dalla sua collocazione politica) e che richiamarsi ad una trasversalità con riferimento a questo tema rischia di essere una ingenuità o un “infantilismo” che è addirittura peggiore del concetto sotteso alla accusa (diametralmente opposta) di essere “pacifisti”, che spesso viene utilizzata come una clava per definire coloro i quali parteggiano per questa causa, ma in maniera – come dire – velleitaria o irrealistica ed irrazionale.

A me sembra evidente che il fatto stesso di richiamarsi ad una trasversalità (pur se con la precisazione innanzi espressa) sottenda invece il potenziale del movimento mondiale per la pace che, a seguito della manifestazione del 15 febbraio 2003 (che ha visto oltre 100 milioni persone scendere in 600 piazze nel mondo) è stato definito dal New York Times come la seconda potenza mondiale. Ma questa “trasversalità” è una conquista dal basso che presuppone l’acquisizione di coscienza e di consapevolezza su questo delicato tema in maniera avulsa e scevra dai condizionamenti partitici o di schieramento politico e che si traduce in militante e convinta partigianeria. Non si tratta, in definitiva, di trasversalità (termine utilizzato da molti anche nelle nostre discussioni) ma di tendenziale o potenziale egemonia culturale.
Ciò da cui dobbiamo, o dovremmo, partire è il concetto secondo cui la violenza genera violenza e alimenta la perversa spirale terrorismo-guerra-terrorismo, nonché partire, in una logica di corrispondenza tra mezzi e fini, dalla consapevolezza che la pace non può essere costruita con la guerra la quale sancisce soltanto le “ragioni” del più forte. Occorre invertire un paradigma che purtroppo, allo stato, risulta maggioritario nel senso comune e rischia di condizionare alla radice ogni possibile discussione. Sul punto straordinariamente illuminanti si rilevano le affermazioni di Papa Giovanni Paolo II: «Esiste un diritto a difendersi dal terrorismo. E un diritto che deve, come ogni altro, rispondere a regole morali e giuridiche nella scelta sia degli obiettivi che dei mezzi. L'identificazione dei colpevoli va debitamente provata, perché la responsabilità penale è sempre personale e quindi non può essere estesa alle nazioni, alle etnie, alle religioni, alle quali appartengono i terroristi».

Ciò è quanto non accade in questo momento nei territori israeliani e palestinesi. Al contrario, può essere detto che attualmente nei territori palestinesi vi è una emergenza umanitaria e che i diritti umani non trovano concreta attuazione.
Con riguardo a quanto appena detto, posso certamente confermare che le visite ad Hebron, ad Haifa e ai campi profughi di Shu’fat e Al-fawar, alla città palestinese in territorio israeliano di Jeseelzarka e al villaggio di Beit-Doku, unitamente alla raccapricciante realtà di chilometri e chilometri di muro, hanno destato in me questa innegabile sensazione. Queste attuali condizioni sono certamente anche la reazione ad una altrettanto innegabile violenza costituita dal terrorismo.
Ma provando ad andare oltre questa sensazione immediata (scaturente dallo sfogo costituito dai racconti di uomini delle istituzioni e persone comuni), credo che la situazione attuale mi abbia colpito per la sua frammentazione. In altre parole, esistono diversi problemi che riguardano differenti realtà e differenti situazioni e condizioni soggettive. Questi disomogenei contesti della complessiva realtà palestinese possono essere affrontati soltanto se ricondotti ad unità e se affrontati nel loro assieme. Un altro problema che mi è sembrato evidente è quello della mancanza di rappresentatività. Ogni relazione e interlocuzione può essere utile a favorire un processo reale se la parte con cui ci si confronta sia davvero rappresentativa della realtà da cui proviene. In caso contrario, ogni processo o formula rischiano di cadere dall’alto ed essere percepiti come una ulteriore imposizione. Più volte, dalle discussioni che abbiamo svolto, soprattutto con interlocutori palestinesi, è emerso che ognuno parla a nome di un gruppo (OLP per il campo profughi di Shu’fat, Fatah per il sindaco di Hebron) ma senza essere passati per un processo realmente democratico. Inoltre, la divisione in grossi gruppi familiari contribuisce ad una frammentazione ulteriore e costituisce ostacolo alla democraticità interna alla Palestina.

Ed ancora, un ulteriore elemento che mi è sembrato emergere con nettezza da ogni discussione è quello del vittimismo. Di entrambe le parti. Dal versante israeliano questo elemento scaturisce dall’essere stati, come ebrei, vittime per antonomasia della follia dell’uomo in quello che è stato il punto più basso e l’abominio della intera umanità: la shoà. E, inoltre, dal sentirsi, per le note vicissitudini belliche e terroristiche, sotto costante assedio. Questo vittimismo genera una inconscia rimozione delle prevaricazioni imposte ai palestinesi o una sorta di giustificazione delle medesime. Dal versante palestinese, mi sembra invece che il continuo ed incessante racconto delle pur obiettive ingiustizie subite si traduca in una sorta di vittimismo che è tutto in funzione di una particolare rivendicazione o di una maggiore attenzione a quel particolare spaccato di società vissuto da ognuno di loro. In altre parole, la frammentazione di cui si diceva innanzi, in uno a questa sorta di vittimismo, mi è sembrata funzionale ad attirare l’attenzione sulla centralità del problema e ognuno vive, quale profugo o residente in una particolare zona e così via. Questa forma di rivendicazionismo non deve essere sottovalutata, per un verso perché le questioni poste per la loro maggior parte non sono affatto strumentali e per un altro verso perché nel processo di pace si sono spesi dal 1993 ad oggi 12 trilioni di dollari. Si tratta di una somma enorme che sicuramente ha arricchito singoli gruppi (forse privi di quella reale rappresentatività di cui si è detto) a scapito di una socializzazione delle risorse impiegate e con una sostanziale deresponsabilizzazione di Israele.

Tutte queste sensazioni ed impressioni le ho ricevute e vissute in un contesto in cui la comunicazione e l’informazione israeliana ed internazionale sembrano offrire un racconto della realtà assai diverso dalla sostanza delle cose. Ci è stato riferito che i cittadini israeliani difficilmente possono avere contatti con i palestinesi e con gli stessi coloni e ad essi è anche impedito l’accesso nei territori. Una martellante campagna mediatica rappresenta costantemente l’assedio ed il potenziale pericolo vissuto da Israele omettendo di dare una completa informazione sulla attuale condizione dei palestinesi. Tutto ciò comporta un clima di continua tensione che non facilita il dialogo e compromette le relazioni anche in quelle rare ipotesi di convivenza che mi è capitato di conoscere, come ad esempio quella di Haifa. Per non dire che per i palestinesi con il passaporto israeliano tutto ciò si traduce in un formale riconoscimento di pari diritti e dignità ma in una sostanziale situazione di disparità che ha tratti molti simili all’apartheid.

Accanto a tutto ciò, abbiamo avuto l’occasione di vivere situazioni ed esperienze in grado di dare speranza per il futuro e per l’umanità. Mi riferisco alle Women in black o al Parents Circle. Anche in un contesto difficile come quello descritto, è possibile che nascano esperienze in grado di scardinare il senso comune e costituire una base su cui ripartire. In particolare, l’incontro avuto con una donna israeliana a cui avevano ucciso il figlio ed un ragazzo palestinese a cui avevano ucciso il fratello (entrambi della associazione Parents Circle) è stato straordinario. Innanzitutto perché ha fatto emergere la situazione di terrore che entrambi i popoli sono costretti a vivere (le violenze fisiche per chi è sospettato di terrorismo o la paura che costringe a mandare i figli a scuola su autobus diversi per paura degli attentati: così riducendosi il potenziale danno). E poi soprattutto perché è stato davvero illuminante sulla non violenza, altro elemento fondamentale per qualsiasi progetto di pace.

La non violenza non solo come modalità della condotta ma come strumento reale di critica di qualsiasi potere o prepotenza. La non violenza come regola universale, come rivoluzione culturale, come nuovo paradigma in grado sovvertire alla radice i tradizionali approcci e le culture che governano il mondo e le relazioni tra gli individui. Mi ha fortemente impressionato ciò che ha detto Alì, il giovane palestinese. Dopo aver subito diverse violenze dalla polizia che lo aveva interrogato per ore a seguito dell’uccisione del fratello, Alì, che poteva essere tentato a dare sfogo alla sua rabbia, alla sua frustrazione e al suo dolore, ha pensato che non voleva consentire un’altra “occupazione” (termine utilizzato per richiamare le occupazioni israeliane nei territori): quella della sua mente. Se avesse reagito con violenza alla violenza avrebbe consentito ai suoi aguzzini di controllare anche la sua reazione e in definitiva la sua mente. Per questo aveva ringraziato il commissario perché con la sua condotta feroce lo aveva fortificato nella giustezza della sua scelta: la non violenza.
Questa visione dell’universo scardina ogni ricerca delle ragioni e dei torti, ogni possibile paragone tra violenza e violenza e ci rivela una pace come concetto universale non comprimibile nei desiderata di ognuno.

Credo che solo questa possa essere la strada. La spirale terrorismo-guerra-terrorismo si autoalimenta e le posizioni tendono tutte a farsi più estreme. La vittoria di Hamas a Gaza ne è una conseguenza. Su questa strada ci si incammina verso un vicolo cieco senza ritorno. Parlando con un ebreo ultraortodosso come con un palestinese ex carcerato a seguito della prima Intifada, ho appreso che ognuno ha le sue ragioni e che ognuno vuole la “sua” di pace. Il primo, infatti, si è dichiarato assolutamente favorevole alla pace e si è stupito per una simile domanda, dal momento che, a suo dire, la pace sarebbe minata soltanto dagli attacchi terroristici. Il secondo, a chi gli obiettava che se si fosse insistito troppo sulle ragioni dei palestinesi non si sarebbe proceduto agevolmente verso la pace, ha risposto con una metafora. Dopo aver sottratto la borsa a chi gli rivolgeva l’obiezione, ha detto: “va bene, adesso questa è mia!”. Poi: “Vuoi la pace? Va bene, pace. Ma questa borsa è mia! Pace.”

Come si vede da queste brevi e semplici riflessioni, la situazione è ben più complicata di quello che si possa immaginare. Lo sforzo che possiamo e dobbiamo produrre è quello di divulgare quanto accade in quel lembo di terra e costruire una diversa consapevolezza nel senso comune occidentale. Partendo dai noi e dalle nostre, anche piccole, realtà.

Paolo Pesacane

Diario di viaggio: Gli insediamenti dei coloni


Il nostro simpaticissimo giovane accompagnatore ebreo è stato militare. Ha disertato, ha subito il carcere, ha deciso di dedicarsi al problema degli sfratti e delle demolizioni di case palestinesi nella Gerusalemme est.

Ci fa incontrare
Mariam Rawi che con la sua famiglia (38 persone) è stata sfrattata da circa tre mesi. Sfrattati e buttati fuori dalla casa dove abitavano dal 1957. Non hanno documenti che dimostrino la proprietà.
Mariam con altre donne e bambini sta sotto un telo (non si può chiamare tenda) sul marciapiede di fronte alla sua ex casa, nella quale l’israeliano che la occupa, sta lavorando, immagino, per ripararla e sistemarla a suo gusto. Ci ha visto, siamo una cinquantina di persone sulla strada, e lo vediamo pure noi alla finestra con il telefono all’orecchio. Sta chiamando la polizia che arriva tempestivamente. Si fermano, ci osservano senza scendere dal veicolo, c’è perfetta calma, fanno dietrofront e se ne vanno lentamente.

Salutati gli sfrattati, dopo che abbiamo, con sollievo, assistito anche al ritorno del figlio di una signora della tenda che era stato prelevato di primo mattino dalla polizia per un interrogatorio,
ci dirigiamo verso un insediamento, dove potremo incontrare un colono israeliano.
Già da lontano, in una zona desertica e arida, possiamo ammirare una bellissima città costruita sulla sommità di alcune alture. Nella mia immaginazione un insediamento doveva consistere in qualcosa di abbastanza ridotto, invece Ma’aleh Dumin, così si chiama questa occupazione israeliana, conta circa 40000 abitanti.
Arriviamo al Municipio, un edificio ampio e moderno dove possiamo usufruire di bagni, acqua filtrata e fresca.

Ci viene a prelevare Ghidon, ebreo americano, un uomo ben piantato e sicuro di sé, che ci guida in un giro per la città con la corriera. Le strade sono esemplarmente pulitissime, numerosi giardini ben tenuti , piante e alberi annaffiati.
Gli edifici e i condomini ordinati e bianchissimi. Regna la tranquillità e la pace.
Completata la visita, Ghidon ci accoglie in una saletta e apre il dialogo raccontandoci che questa meraviglia è sorta nel deserto, sui terreni “disputati”, con lo sforzo dei coloni e con la collaborazione di Gerusalemme che ha fornito l’acqua, i materiali di costruzione e facilitazioni sulle tasse.
L’esercito israeliano ha anche provveduto alla difesa dai franchi tiratori palestinesi. A tutto questo Lisa obietta che questi sono territori occupati e non disputati, al che Ghidon con una certa arroganza controbatte che in altre occasioni li definisce addirittura come territori liberati.

L’angoscia si accumula dentro di me di fronte a tutte queste situazioni violente e assurde ma improvvisamente mi sgonfio perché mi assale una constatazione velenosa: le nostre tante situazioni italiane portate all’esasperazione.
Abbiamo incontrato un “normale” colono israeliano e fra qualche giorno ritroveremo un “normale” sindaco di Treviso

Miglioranza Claudio

martedì 20 ottobre 2009

Pacifisti


“Ma tu ti ricordi esattamente che cosa prevedevano gli accordi di Oslo?”. La voce di una donna, accento toscano, risuona in fondo al pullman. Si viaggia fra Gerico e Betlemme. E' tardi, è già buio, la giornata è stata lunga, fa ancora caldo, molti dormono, ma la domanda non cade nel vuoto. L'amica, che le siede accanto, non ricorda troppo bene, non sa dare una risposta precisa, ma le due donne vanno avanti per un po' a discutere su quell'accordo che nel 1993 tentò di risolvere il confitto fra israeliani e palestinesi.
Il popolo della pace è fatto così. Ragiona, discute, vuole imparare e conoscere. E' quello che dal 10 al 17 ottobre hanno fatto gli oltre quattrocento partecipanti all'iniziativa che ha portato in Israele e in Palestina la tradizionale Marcia per la pace Perugia-Assisi. Quest'anno la Marcia si è spostata a Gerusalemme per un progetto che è stato denominato Times for Responsabilities (il tempo delle responsabilità). Il nome riprende una frase pronunciata dal presidente Barack Obama: “Per giungere alla pace in Medio Oriente è ora che loro, e noi tutti con loro, ci assumiamo le nostre responsabilità”. “Se Obama fallisce si apre una voragine profonda per tutti, anche per noi europei. Perciò non c'è più tempo da perdere, bisogna agire prima che sia troppo tardi”, dice Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della Pace.
Organizzata dal Coordinamento nazionale degli enti locali per la pace e i diritti umani, dalla Piattaforma delle Ong italiane per il Medio Oriente e dalla Tavola della Pace, l'iniziativa ha portato in Israele e nei Territori palestinesi amministratori locali, sindacalisti, studenti, insegnanti, persone impegnate in varie Ong e semplici cittadini. C'erano i ragazzi del Liceo Maffei di Verona e il quasi ottantenne Diego Novelli , l'ex sindaco di Torino, ancora curioso delle vicende del mondo. C'era don Tonio Dell'Olio di Libera e i ragazzi di Terra del Fuoco, l'associazione torinese che ogni hanno educa alla cittadinanza portando migliaia di studenti ad Auschwitz.
Sono venuti da 128 città italiane. In una settimana hanno consumato le suole delle scarpe sulle strade della Terra Santa, hanno steso fiumi di inchiostro sui fogli e quaderni riempiti di appunti, hanno scattato centinaia di fotografie. Hanno sentito la voce dei palestinesi e quella degli israeliani. Hanno visitato i campi dei rifugiati e gli insediamenti dei coloni ebrei. Tutti insieme, poi, sono entrati nel museo di Yad Vashem a Gerusalemme, dove viene ricordato l'orrore dell'Olocausto.
Ora sono tornati a casa pieni di ricordi e di emozioni. “Un viaggio qui attraversa la vita delle persone, perché la realtà che vedi è troppo forte. Questo è un viaggio che ti cambia la vita”, assicura Luisa Morgantini, l'ex parlamentare europea che viene regolarmente da queste parti dalla metà degli Anni Ottanta.
Divisi in gruppi i 400 partecipanti hanno vissuto diverse esperienze. Ogni giorno c'era quella di passare i check-point che, attraverso il muro fatto costruire dal governo israeliano, regolano gli accessi fra Israele e i Territori palestinesi. Il passaggio del muro è già un primo modo di confrontarsi con i problemi irrisolti di questa terra divisa e insanguinata. Ed è uno shock per i più giovani, magari nati quando il muro di Berlino era già crollato. Una di loro è Paola Calliari, una liceale diciottenne di Trento che ha deciso di unirsi alla Marcia per capire e conoscere. Paola si è alzata anche in piena notte per vedere la ressa dei palestinesi che si accalcano ai check-point per andare a lavorare in Israele (le immagini si possono vedere in un bel reportage di Raffaele Crocco ed Enrico Guidi su www.youtube.com/perlapace).
A Bil'in e a Na'alin, due villaggi della Cisgiordania, abbiamo incontrato le comunità che ogni venerdì organizzano manifestazioni non violente contro il muro. Di solito finisce male perché i militari israeliani rispondono alle proteste sparando lacrimogeni molto potenti (ci sono stati anche dei morti). I palestinesi protestano perché il muro spesso taglia i campi coltivati e gli uliveti. Accanto a loro ci sono pacifisti da varie parti del mondo e anche israeliani, come i volontari di Yesh Din, un'associazione che si batte perché Israele rispetti i diritti umani della popolazione palestinese nei Territori. Anche venerdì scorso c'è stata la marcia di protesta non violenta e puntuali sono arrivati i lacrimogeni. Ma la gente dei villaggi non si arrende perché, come ci ha detto il primo ministro palestinese Salam Fayyad, “le nostre radici in questa terra vanno in profondità come quelle di questi ulivi”.
A Sderot, la cittadina israeliana più vicina alla Striscia di Gaza, abbiamo ascoltato le voci degli israeliani con i nervi spezzati per le migliaia di razzi che negli ultimi anni i militanti di Hamas hanno lanciato verso Israele. A Sderot i rifugi sicuri sono dovunque, alle fermate degli autobus così come nei campi gioco per bambini. Julia Chaitin, una psicologa, racconta dei traumi nella popolazione locale e spiega come si regola per sfuggire a eventuali razzi quando si mette in macchina per raggiungere l'università. Ma nonostante la paura si cerca di aprire canali di dialogo con la gente di Gaza. Eric Yellin, dell'associazione Other Voice (Altra voce) spiega: “Non ha senso fare paragoni fra le nostre sofferenze e quelle di chi vive a Gaza, cerchiamo piuttosto di condividere le nostre esperienze e troviamo un'alternativa ai razzi e ai carri armati. Li abbiamo usati per anni da una parte e dall'altra, ma abbiamo visto che non servono a nulla”.
E' stato emozionante l'incontro con due rappresentanti di Parents Circle, l'associazione che raccoglie i familiari delle vittime del conflitto, sia israeliani che palestinesi. Robi Damelin ha raccontato di suo figlio David, un militare israeliano di 27 anni ucciso da un cecchino. Ali Abu Awwad, palestinese, invece ha rievocato la morte del fratello Yusuf, ucciso dai militari israeliani. Ora, insieme, cercano la riconciliazione, anche se si tratta di un percorso lungo e difficile.
Una piccola delegazione è riuscita a visitare per qualche ora Gaza. Nell'incontro con Hamad Yusuf , esponente del governo di Hamas, Flavio Lotti ha spiegato che deve cessare ogni forma di violenza e occorre dialogare a tutti i livelli, anche con gli israeliani. Nella delegazione entrata a Gaza c'era anche Ilo Steffenoni, 16 anni, del Liceo Maffei di Verona. “Ho visto rassegnazione, rabbia e dolore”, dice, da domani non posso tornare a casa e riprendere la mia vita come se nulla fosse”.
Ora Ilo e gli altri 400, tornati a casa, racconteranno. Mobiliteranno persone ed energie. Si rivedranno il 16 maggio 2010 alla marcia da Perugia ad Assisi.

Roberto Zichittella

Pubblicato su Famiglia Cristiana

lunedì 19 ottobre 2009

Si conclude la settimana per la pace in Israele e Palestina. Prosegue il tempo delle nostre responsabilità


Una settimana per riflettere e testimoniare la nostra assunzione di responsabilità in un conflitto le cui responsabilità, alla radice, sono soprattutto europee. Non per pacifismo o buonismo, ma per un sano realismo, consapevoli del pericolo che questo conflitto rappresenta per l’Europa e il mondo, consapevoli che la pace porterà frutti copiosi anche per noi, sostiene Flavio Lotti, Coordinatore della Tavola della Pace.

Oltre 400 persone di 128 città italiane, dalla Liguria: di Alassio, Bolano, Celle Ligure, Genova e La Spezia, per sostenere le iniziative, numerose, a tutela dei Diritti Umani, in particolare le associazioni che vedono Israeliani e Palestinesi impegnati insieme, pacificamente, per i Diritti e per la costruzione della Pace.
C’è un’emergenza umanitaria in questa terra, che dovrebbe essere santa, che va affrontata subito: fermando tutte le forme di violazione dei Diritti Umani e aprendo Gaza. Un ragazzo di 17 anni Veronese è rimasto molto turbato dall’incontro con un coetaneo a Gaza, un giovane carico di rabbia…”perché lui è nato nella guerra, è cresciuto nella guerra e morirà nella guerra, perche da Gaza non si esce!”. In tutti i territori della Cisgiordania i diritti del Palestinesi vengono calpestati.
L’ONU calcola 600 tipi di ostacoli che la popolazione Palestinese deve affrontare per spostarsi e per le normali necessità della vita: Il muro con i suoi checkpoit che per i palestinesi rappresentano sempre una incognita; Le strade che tagliano il loro territorio con corridoi inaccessibili, molte strade della Cisgiordania sono accessibili sono a israeliani e turisti, alcune solo ai coloni; I sottopassaggi per evitare le strade proibite vengono tappati da pietre. Poi ci sono i chilometri di filo spinato, interrotto ogni tanto da cancelli che vengono gestiti dalle autorità Israeliane. A Bil’in, villaggio palestinese nella Cisgiordania, dove ogni venerdì si tiene una manifestazione pacifica contro il muro, abbiamo visto una casa contadina completamente circondata da filo spinato: quando il cancello è chiuso gli abitanti non possono entrare né uscire dal piccolo terreno che contiene la casa, quando il cancello è aperto possono muoversi, ma per raggiungere i loro campi devono fare un giro di chilometri.
Ho imparato nel corso di questo viaggio che Il muro e il filo spinato non stano a dividere i territori Palestinesi dal territorio dello Stato di Israele, non corrono sulla linea di confine, bensì seguono percorsi a volte rocamboleschi per includere insediamenti di coloni israeliani in territorio che dovrebbe essere palestinese. Proprio questi insediamenti stanno diventando una delle principali fonti di conflitto.

Un villaggio palestinese sorge a mezza costa di una collina, il territorio intorno, fino alla sommità della collina e oltre, è da sempre del villaggio per le coltivazioni e il pascolo. Un giorno inizia l’insediamento di coloni sulla sommità della collina che priva i Palestinesi delle terre, e, quindi, delle attività produttive, inoltre attraverso un intricato sistema di strade riservate e controlli per la sicurezza limita enormemente le possibilità di movimento e di attività degli abitanti del villaggio.
Legalmente ci sono diversi modi per realizzare un insediamento: spesso gli abitanti del villaggio palestinese hanno forme di proprietà basate sulla tradizionale conoscenza e non su documentazione legale e quindi lo stato può “formalmente” disporre di quei terreni; altre volte i terreni vengono requisiti per necessità relative alla sicurezza, si installa una base militare che col tempo lascia il posto all’insediamento civile.

Abbiamo visto una base militare dove operano 200 persone e dove si sta lavorando speditamente per la costruzione di infrastrutture (acqua, energia elettrica, fognature,…) per 25.000 persone, sarà un nuovo insediamento se qualcuno non lo ferma!
I nuovi coloni si “difendono” impedendo qualunque contatto con i Palestinesi e tenendoli sotto controllo in tutti i modi possibili (percorsi obbligati, faretti puntati dall’alto sul villaggio,…), si contano anche numerosi casi di maltrattamenti alle persone. I bambini Palestinesi crescono assediati e nella paura, ma neppure per i bambini israeliani è una vita facile.
Un altro tragedia per i palestinesi è rappresentata dalla demolizione delle case “abusive”. Sappiamo tutti quanto sia importante la legalità nella costruzione delle case, ma qui vengono considerate abusive anche case che da generazioni sono di una famiglia, sulla base di diritti consolidati ma non scritti, e nel contempo le richieste di costruzione di nuove case per i Palestinesi incontrano ostacoli di tutti i tipi, spesso insormontabili. Addirittura vengono demolite le case costruite, con il beneplacito dell’UNRWA dentro i campi profughi, la cui popolazione si è quintuplicata o decuplicata.

Esistono associazioni pacifiche contro la demolizione delle case, formate da Israeliani, Palestinesi e volontari internazionali: arrivano in massa a cercare di impedire la demolizione, denunciano i fatti qui e all’estero, ricostruiscono le case demolite. Abbiamo pranzato – benissimo! – in una casa che è stata demolita 4 volte, ora è stata costruita per la quinta volta e si attende la prossima demolizione, anche se si stanno facendo tutti i passi possibili perché rimanga in piedi (ogni abitante il villaggio ha sottoscritto un documento che quella casa è da sempre della famiglia secondo un accordo fra tutti gli abitanti del villaggio stesso). La casa oggi è la sede dell’associazione contro la demolizione delle case, la famiglia ha dovuto trasferirsi in un appartamento in affitto dopo che la signora è rimasta 1 mese muta per lo schoc e una figlia ha avuto gravi disturbi.
Ieri pomeriggio siamo scesi a concludere il viaggio a Jericho, il punto più basso della terra (415 metri sotto il livello del mare) “da cui non si può che risalire”, e a Gerico abbiamo fatto lo “stend up” per gli obiettivi del millennio: in più di 400 abbiamo saltato, sotto gli occhi stupiti della gente e quelli meccanici dei giornalisti che ci accompagnano, per testimoniare l’impegno a fare un salto in avanti per ridurre la fame e la povertà nel mondo.

Ci dicono che più del 60% degli israeliani è per la Pace, ma non sa a chi chiederla, per questo è IMPORTANTE che l’Europa si assuma le sue responsabilità, è importante rispondere immediatamente all’appello di Obama, è necessario aprire Gaza.
Ed è URGENTE perché tutti, qui e fuori di qui, sono convinti che questa sia l’ultima occasione di mettere fine a questo conflitto.

Elide Taviani

La Notte delle candele


Questa sera la piazza di Bethlehem è stata illuminata da tante fiammelle di candela, simbolo di Pace. Siamo al sesto giorno della settimana per la pace in Israele e Palestina “Time for Responsabilities”.
Siamo qui per assumerci le nostre responsabilità di Europei in un conflitto complesso, incredibile e di cui non si vede soluzione.

Abbiamo incontrato persone di tutti i tipi: Palestinesi dei villaggi, Israeliani pacifisti, profughi nel terribile campo di Gerusalemme, operatori dell’UNRWA (l’agenzia ONU che gestisce i campi profughi), i nostri Diplomatici, Sindaci, Amministratori, donne uomini bambine e bambini palestinesi e israeliani.
Domenica 11 a Ramallah abbiamo avuto un incontro con il Primo Ministro dell’Autorità Palestinese Salam Fayyad, lo stesso giorno avevamo partecipato insieme a lui a una manifestazione per il diritto del Palestinesi a raccogliere le proprie olive; alla manifestazione erano presenti anche il Ministro dell’Agricoltura dell’Autorità Nazionale Palestinese, rappresentanti delle Nazioni Unite, rappresentanti diplomatici della Svezia e del Giappone.

Questa complicata marcia vede nella piccola Bethlehem e in giro per i territori palestinesi e israeliani oltre 400 rappresentanti di Enti Locali, ONG, Associazioni italiane; una iniziativa di “diplomazia dei cittadini”. Stiamo sostenendo le manifestazioni per il diritto a raccogliere il frutto delle proprie coltivazioni, le organizzazioni che si oppongono alla demolizione delle case di palestinesi, e le manifestazioni contro il muro.
Questo muro che è la nuova vergogna del mondo, che divide i figli dai genitori, le case dagli orti, un villaggio dall’altro e che opprime tutti, anche noi, con la sua presenza, le sue torrette armate, i quintali di filo spinato, i suoi checkpoint angoscianti.

Convivere col muro: partiamo da Betlemme alle 7,30 verso Gerusalemme, in pochi minuti siamo al muro e al suo checkpoint “Tomba di Rachele”, i veicoli sono tutti in fila a passo d’uomo, sul muro una scritta che lo paragona a quello del ghetto di Varsavia; arriviamo alla sbarra, fanno entrare il pullman e ci fermano prima della rotonda dentro al checkpoint. Passaporto in mano, contornati da tre soldati armati di mitra, veniamo instradati verso un tunnel/cunicolo dove scendiamo zigzagando fino a un antro controllato a vista dai soldati armati sopra di noi, come nelle prigioni. In fila, molto lentamente passiamo il controllo del passaporto, c’è anche la macchinetta per le impronte digitali ma è spenta; riprendiamo a zigzagare in salita, altro tunnel e, finalmente, l’uscita. Il pullman ci attende a fianco alla rotonda fiorita: c’è anche l’aiuola dentro il checkpoint!
Saliamo sul pullman, passiamo l’ultima sbarra e finalmente siamo fuori con 45 minuti di ritardo.

Alla Porta di Jaffa sale con noi un amico Palestinese, con lui visitiamo un villaggio fra Gerusalemme e Ramallah. Dopo la prima visita lui scende, sale sulla macchina di amici e parte per il suo giro: non può proseguire la strada con noi verso il prossimo checkpoint, dovrà fare un giro più lungo sulle strade riservate ai Palestinesi. Arriviamo al checkpoint, ci fermano, non vogliono controllare i passaporti ma non ci fanno passare. Nello stupore generale i soldati spiegano che stiamo percorrendo una strada riservata ai coloni dei nuovi insediamenti israeliani, dove i turisti non possono passare. Occorrono circa 20 minuti di trattativa per convincerli e ripartire. Al prossimo incrocio attendiamo il nostro amico palestinese che ha dovuto fare un giro molto più lungo del nostro. E’ passata così mezza giornata, abbiamo fatto la metà delle cose programmate.
Per i Palestinesi passare i checkpoint è molto più complesso, lungo e doloroso, trascorrono lì dentro ore e non c’è mai certezza di poter uscire dall’altra parte.

Questa mattina una delegazione (fra loro anche Angelo Cifatte del Comune di Genova in rappresentanza dell’AICCRE), è andata a Gaza, dove nulla è stato ricostruito, nonostante le promesse, ci dice Filippo Grandi dell’UNRWA, dove la gente cerca di sopravvivere ammassata in mezzo a macerie, spazzatura e distruzione. La densità della popolazione è altissima, la maggior parte sono bambini.
Ci raccontano che Gaza è peggio della situazione del Campo Profughi di Gerusalemme che abbiamo visitato tutti ieri mattina. Al campo si accede attraverso un corridoio chiuso da rete metallica e un checkpoint, per Gaza i controlli sono quattro.
Al campo si vive in mezzo ai rifiuti e alle macerie delle case demolite perché “abusive”, i rifiuti vengono bruciati lungo le strade e i bambini crescono nella diossina. Il campo è stato realizzato per 3.500 persone, oggi ce ne sono 18.000, ma senza tutti i permessi in regola non si può costruire, le case abusive vengono demolite dai soldati israeliani. Anche gli operatori ONU vengono controllati dai soldati israeliani e non possono portare dentro il campo neppure un sacco di cemento. Camminando per quelle strade la sensazione è di schifo. Posso solo provare a immaginare Gaza.

Elide Taviani