lunedì 26 ottobre 2009

Diario di viaggio: Considerazioni sul viaggio in Palestina


Questa settimana della Pace in Palestina è stata una esperienza di conoscenza davvero incredibile e che ha arricchito i partecipanti da diversi punti di vista. Tutto quello che ognuno di noi, come amministratori, singoli cittadini, esponenti di associazioni, sindacati e movimenti, poteva aver acquisito quale bagaglio personale di nozioni e consapevolezza credo che sia risultato stravolto dal contatto diretto con una realtà che nessuna trasmissione televisiva o servizio giornalistico possono rappresentare in maniera completa. Non solo per l’approccio culturale o per l’opzione di fondo che ciascuno ha nel raccontare ciò che vede ma anche e soprattutto per la parzialità che il proprio angolo di visuale comporta. Appare evidente, quindi, che anche ciò che proverò a dire dal mio punto di vista, per quanti sforzi possa fare di astrazione e “neutralità”, risulterà parziale in senso oggettivo (non ho avuto modo di conoscere complessivamente la vicenda di quei luoghi) e soggettivo (difficilmente riuscirò a spogliarmi del mio retroterra culturale e della carica emotiva suscitata da alcuni racconti vissuti, da chi li narrava, in prima persona e sulla propria pelle).
Proverò quindi ad offrire alcune riflessioni che abbiano ben chiare queste premesse e che si pongano l’ambizioso obiettivo di uscire dalla ovvietà e dalla banalità.

Credo infatti che dal punto di vista delle dichiarazioni di intenti nessuno, o quasi, possa dirsi contrario alla pace (a prescindere dalla sua collocazione politica) e che richiamarsi ad una trasversalità con riferimento a questo tema rischia di essere una ingenuità o un “infantilismo” che è addirittura peggiore del concetto sotteso alla accusa (diametralmente opposta) di essere “pacifisti”, che spesso viene utilizzata come una clava per definire coloro i quali parteggiano per questa causa, ma in maniera – come dire – velleitaria o irrealistica ed irrazionale.

A me sembra evidente che il fatto stesso di richiamarsi ad una trasversalità (pur se con la precisazione innanzi espressa) sottenda invece il potenziale del movimento mondiale per la pace che, a seguito della manifestazione del 15 febbraio 2003 (che ha visto oltre 100 milioni persone scendere in 600 piazze nel mondo) è stato definito dal New York Times come la seconda potenza mondiale. Ma questa “trasversalità” è una conquista dal basso che presuppone l’acquisizione di coscienza e di consapevolezza su questo delicato tema in maniera avulsa e scevra dai condizionamenti partitici o di schieramento politico e che si traduce in militante e convinta partigianeria. Non si tratta, in definitiva, di trasversalità (termine utilizzato da molti anche nelle nostre discussioni) ma di tendenziale o potenziale egemonia culturale.
Ciò da cui dobbiamo, o dovremmo, partire è il concetto secondo cui la violenza genera violenza e alimenta la perversa spirale terrorismo-guerra-terrorismo, nonché partire, in una logica di corrispondenza tra mezzi e fini, dalla consapevolezza che la pace non può essere costruita con la guerra la quale sancisce soltanto le “ragioni” del più forte. Occorre invertire un paradigma che purtroppo, allo stato, risulta maggioritario nel senso comune e rischia di condizionare alla radice ogni possibile discussione. Sul punto straordinariamente illuminanti si rilevano le affermazioni di Papa Giovanni Paolo II: «Esiste un diritto a difendersi dal terrorismo. E un diritto che deve, come ogni altro, rispondere a regole morali e giuridiche nella scelta sia degli obiettivi che dei mezzi. L'identificazione dei colpevoli va debitamente provata, perché la responsabilità penale è sempre personale e quindi non può essere estesa alle nazioni, alle etnie, alle religioni, alle quali appartengono i terroristi».

Ciò è quanto non accade in questo momento nei territori israeliani e palestinesi. Al contrario, può essere detto che attualmente nei territori palestinesi vi è una emergenza umanitaria e che i diritti umani non trovano concreta attuazione.
Con riguardo a quanto appena detto, posso certamente confermare che le visite ad Hebron, ad Haifa e ai campi profughi di Shu’fat e Al-fawar, alla città palestinese in territorio israeliano di Jeseelzarka e al villaggio di Beit-Doku, unitamente alla raccapricciante realtà di chilometri e chilometri di muro, hanno destato in me questa innegabile sensazione. Queste attuali condizioni sono certamente anche la reazione ad una altrettanto innegabile violenza costituita dal terrorismo.
Ma provando ad andare oltre questa sensazione immediata (scaturente dallo sfogo costituito dai racconti di uomini delle istituzioni e persone comuni), credo che la situazione attuale mi abbia colpito per la sua frammentazione. In altre parole, esistono diversi problemi che riguardano differenti realtà e differenti situazioni e condizioni soggettive. Questi disomogenei contesti della complessiva realtà palestinese possono essere affrontati soltanto se ricondotti ad unità e se affrontati nel loro assieme. Un altro problema che mi è sembrato evidente è quello della mancanza di rappresentatività. Ogni relazione e interlocuzione può essere utile a favorire un processo reale se la parte con cui ci si confronta sia davvero rappresentativa della realtà da cui proviene. In caso contrario, ogni processo o formula rischiano di cadere dall’alto ed essere percepiti come una ulteriore imposizione. Più volte, dalle discussioni che abbiamo svolto, soprattutto con interlocutori palestinesi, è emerso che ognuno parla a nome di un gruppo (OLP per il campo profughi di Shu’fat, Fatah per il sindaco di Hebron) ma senza essere passati per un processo realmente democratico. Inoltre, la divisione in grossi gruppi familiari contribuisce ad una frammentazione ulteriore e costituisce ostacolo alla democraticità interna alla Palestina.

Ed ancora, un ulteriore elemento che mi è sembrato emergere con nettezza da ogni discussione è quello del vittimismo. Di entrambe le parti. Dal versante israeliano questo elemento scaturisce dall’essere stati, come ebrei, vittime per antonomasia della follia dell’uomo in quello che è stato il punto più basso e l’abominio della intera umanità: la shoà. E, inoltre, dal sentirsi, per le note vicissitudini belliche e terroristiche, sotto costante assedio. Questo vittimismo genera una inconscia rimozione delle prevaricazioni imposte ai palestinesi o una sorta di giustificazione delle medesime. Dal versante palestinese, mi sembra invece che il continuo ed incessante racconto delle pur obiettive ingiustizie subite si traduca in una sorta di vittimismo che è tutto in funzione di una particolare rivendicazione o di una maggiore attenzione a quel particolare spaccato di società vissuto da ognuno di loro. In altre parole, la frammentazione di cui si diceva innanzi, in uno a questa sorta di vittimismo, mi è sembrata funzionale ad attirare l’attenzione sulla centralità del problema e ognuno vive, quale profugo o residente in una particolare zona e così via. Questa forma di rivendicazionismo non deve essere sottovalutata, per un verso perché le questioni poste per la loro maggior parte non sono affatto strumentali e per un altro verso perché nel processo di pace si sono spesi dal 1993 ad oggi 12 trilioni di dollari. Si tratta di una somma enorme che sicuramente ha arricchito singoli gruppi (forse privi di quella reale rappresentatività di cui si è detto) a scapito di una socializzazione delle risorse impiegate e con una sostanziale deresponsabilizzazione di Israele.

Tutte queste sensazioni ed impressioni le ho ricevute e vissute in un contesto in cui la comunicazione e l’informazione israeliana ed internazionale sembrano offrire un racconto della realtà assai diverso dalla sostanza delle cose. Ci è stato riferito che i cittadini israeliani difficilmente possono avere contatti con i palestinesi e con gli stessi coloni e ad essi è anche impedito l’accesso nei territori. Una martellante campagna mediatica rappresenta costantemente l’assedio ed il potenziale pericolo vissuto da Israele omettendo di dare una completa informazione sulla attuale condizione dei palestinesi. Tutto ciò comporta un clima di continua tensione che non facilita il dialogo e compromette le relazioni anche in quelle rare ipotesi di convivenza che mi è capitato di conoscere, come ad esempio quella di Haifa. Per non dire che per i palestinesi con il passaporto israeliano tutto ciò si traduce in un formale riconoscimento di pari diritti e dignità ma in una sostanziale situazione di disparità che ha tratti molti simili all’apartheid.

Accanto a tutto ciò, abbiamo avuto l’occasione di vivere situazioni ed esperienze in grado di dare speranza per il futuro e per l’umanità. Mi riferisco alle Women in black o al Parents Circle. Anche in un contesto difficile come quello descritto, è possibile che nascano esperienze in grado di scardinare il senso comune e costituire una base su cui ripartire. In particolare, l’incontro avuto con una donna israeliana a cui avevano ucciso il figlio ed un ragazzo palestinese a cui avevano ucciso il fratello (entrambi della associazione Parents Circle) è stato straordinario. Innanzitutto perché ha fatto emergere la situazione di terrore che entrambi i popoli sono costretti a vivere (le violenze fisiche per chi è sospettato di terrorismo o la paura che costringe a mandare i figli a scuola su autobus diversi per paura degli attentati: così riducendosi il potenziale danno). E poi soprattutto perché è stato davvero illuminante sulla non violenza, altro elemento fondamentale per qualsiasi progetto di pace.

La non violenza non solo come modalità della condotta ma come strumento reale di critica di qualsiasi potere o prepotenza. La non violenza come regola universale, come rivoluzione culturale, come nuovo paradigma in grado sovvertire alla radice i tradizionali approcci e le culture che governano il mondo e le relazioni tra gli individui. Mi ha fortemente impressionato ciò che ha detto Alì, il giovane palestinese. Dopo aver subito diverse violenze dalla polizia che lo aveva interrogato per ore a seguito dell’uccisione del fratello, Alì, che poteva essere tentato a dare sfogo alla sua rabbia, alla sua frustrazione e al suo dolore, ha pensato che non voleva consentire un’altra “occupazione” (termine utilizzato per richiamare le occupazioni israeliane nei territori): quella della sua mente. Se avesse reagito con violenza alla violenza avrebbe consentito ai suoi aguzzini di controllare anche la sua reazione e in definitiva la sua mente. Per questo aveva ringraziato il commissario perché con la sua condotta feroce lo aveva fortificato nella giustezza della sua scelta: la non violenza.
Questa visione dell’universo scardina ogni ricerca delle ragioni e dei torti, ogni possibile paragone tra violenza e violenza e ci rivela una pace come concetto universale non comprimibile nei desiderata di ognuno.

Credo che solo questa possa essere la strada. La spirale terrorismo-guerra-terrorismo si autoalimenta e le posizioni tendono tutte a farsi più estreme. La vittoria di Hamas a Gaza ne è una conseguenza. Su questa strada ci si incammina verso un vicolo cieco senza ritorno. Parlando con un ebreo ultraortodosso come con un palestinese ex carcerato a seguito della prima Intifada, ho appreso che ognuno ha le sue ragioni e che ognuno vuole la “sua” di pace. Il primo, infatti, si è dichiarato assolutamente favorevole alla pace e si è stupito per una simile domanda, dal momento che, a suo dire, la pace sarebbe minata soltanto dagli attacchi terroristici. Il secondo, a chi gli obiettava che se si fosse insistito troppo sulle ragioni dei palestinesi non si sarebbe proceduto agevolmente verso la pace, ha risposto con una metafora. Dopo aver sottratto la borsa a chi gli rivolgeva l’obiezione, ha detto: “va bene, adesso questa è mia!”. Poi: “Vuoi la pace? Va bene, pace. Ma questa borsa è mia! Pace.”

Come si vede da queste brevi e semplici riflessioni, la situazione è ben più complicata di quello che si possa immaginare. Lo sforzo che possiamo e dobbiamo produrre è quello di divulgare quanto accade in quel lembo di terra e costruire una diversa consapevolezza nel senso comune occidentale. Partendo dai noi e dalle nostre, anche piccole, realtà.

Paolo Pesacane

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