sabato 17 ottobre 2009

Lavorare stanca: la fila mattutina al check-point di Betlemme


La fatica di ogni giorno comincia ben presto per gli operai e gli impiegati palestinesi che lavorano all’interno dello stato di Israele. Alle quattro del mattino, quando arriviamo in un piccolo gruppo al check-point di Betlemme, sono già numerosissimi, in code più o meno organizzate. Già incessante è il viavai di taxi che dai paesi della Cisgiordania, e soprattutto dalla città di Hebron, fanno confluire qui - il punto di passaggio in Israele più vicino a Gerusalemme - i lavoratori arabi. C’è brulicar di vita intorno a loro. Il carretto con il pane caldo e profumatissimo che si aggira senza sosta, per raggiungere le file già formate e portare un po’ di sollievo, e distrazione alla noia dell’attesa, a quanti sono arrivati qui per primi. Le bancarelle accolgono gli uomini che sfilano dai taxi con proposte di bibite calde, polpette di carne per la giornata, e copiosità di sigarette, facili compagne di ogni sottrazione di tempo. I cancelli aprono alle cinque del mattino.

Gli uomini attendono.
Alcuni nel silenzio del forzato risveglio. Altri parlottano fra di loro, in piccoli gruppetti. Una manciata di giovani si è disposta per la preghiera del mattino, pronta a ricevere la prima voce del muezzin. Man mano che si avanza lungo il muro che a Betlemme separa i due territori e spezza per molti la fattibilità stessa dei due stati a lungo evocata dalla comunità internazionale, la fila si restringe in un passaggio angusto di reticolati e barriere. Su cartoni calpestati e sporchi, allineati uno accanto all’altro, dormono come possono quelli che chissà a che ora sono finiti qui, in gabbia.

Questa scena quotidiana
è il risultato dell’alto livello di disoccupazione nei territori occupati, a fronte di salari lievemente più alti pagati in Israele rispetto alla Cisgiordania. D’altra parte, i palestinesi sono una forza lavoro a basso costo assai conveniente per lo stato di Israele: prima del processo di pace di Oslo, oltre un terzo della forza lavoro dei territori occupati trovava impiego in Israele, per lo più nel fiorente settore edilizio. Con la politica della chiusura e della separazione inaugurata da Rabin e poi istituzionalizzata con l’accordo di Oslo, il numero dei lavoratori palestinesi dentro lo stato di Israele è precipitato dai 180.000 occupati nel 1987 (inizio della prima Intifada) agli attuali 35.000, soggetti a restrizioni sempre più incalzanti. Ottenere un permesso di lavoro in Israele è una corsa ad ostacoli burocratica che non in molti riescono a superare. Gli uomini palestinesi che ne fanno richiesta devono essere sposati con figli ed avere più di 35 anni (un limite inferiore a 25 anni è eccezionalmente previsto per alcune industrie), avere una carta magnetica ed una richiesta da un datore di lavoro. Anche chi soddisfa queste condizioni però non ha garanzie di trovare impiego.

Chi alla fine il permesso ce l’ha, entra nel giro estenuante dell’arrivarci, al lavoro, ogni mattina. Una marcia lenta e inerziale della rassegnazione. Tornelli che si aprono con il contagocce, rischi di rimanerci schiacciato. Esibizioni di carte, ed impronte di mani, le stesse ruvide e usurate di tutte le mattine. Occhi che devono fissare dispositivi per il controllo della retina. Il tutto appare un gioco specioso. Una concessione calata dall’alto di una forza occupante che la militarizzazione non la impone più con i carri armati, come accadeva venti anni fa, ma con un uso ferocemente asettico della burocrazia, umiliante, passivizzante.

I palestinesi lo hanno capito che non esistono vie d’uscita. La poca grinta che c’è va usata per non essere topi, per mantenere la dignità che serve a pregare la mattina, per non dare segni di cedimento, chè sarebbe fatale, per restare allerta. Si accalcano man mano che si avvicina l’ora dentro le gabbie, sempre più stipati. Le poche donne che arrivano anch’esse presto per far la fila, camminano raso rete nello spazio che gli uomini lasciano loro cavallerescamente, per farle andare avanti. Provo a mettermi nei loro panni, e non mi piacerebbe affatto sottostare ogni mattina a questo struscio di corpi solo per andare al lavoro. Penso che in Italia una trafila del genere implicherebbe dinamiche palpatorie insopportabili. Qui tutto è più rispettoso, pur nel calore, nella sporcizia, nella polvere, nella stanchezza di stare in piedi che si accumula ancor prima di cominciare la giornata.

Prima delle cinque, tanto per far sfiatare la folla, il varco si apre improvvisamente per qualche secondo, e allora la calca corre veloce in avanti, nel poco spazio che c’è. Spesso succede l’inevitabile, qualcuno cade e si fa male. Molti uomini si arrampicano sulle reti, usano gli interstizi fra i fili di ferro per far passare i loro corpi, sospesi sopra le teste di decine di altri che non obiettano. C’è molta pazienza nei lavoratori che avanzano passo dopo passo, nessuna reazione verso chi fa il furbo. Vien da pensare che in Italia ci sarebbe giungla di rabbia, sgomitare isterico, vocio di insulti. Pugni. Qui no. Qui allerta di corsa in avanti, così che qualche decina di loro ce la fa a superare la prima barriera. Qui c’è la resilienza degli oppressi.

Siamo anche noi in fila con loro. Fatichiamo a comunicare perché tutti parlano l’arabo, e solo qualcuno mastica poche frasi in inglese. Ci guardano perché abbiamo le telecamere, non ci sono abituati, i giornalisti non vengono a raccontare queste storie di ordinaria occupazione. Ci sono invece alcuni rappresentanti di un’organizzazione internazionale evangelica che fa monitoraggio sulle procedure di controllo. Spesso le alzatacce le fanno le volontarie di Machsom Watch, una realtà di donne israeliane che a centinaia tengono sott’occhio il comportamento dei loro soldati nei confronti dei palestinesi. Una delle molte schegge di società israeliana che difende ciò che resta della dignità morale di un popolo.

Anche noi passiamo, il secondo tornello, con la soldatessa giovanissima che deve sbrigarsela da sola, tutta questa massa di uomini. Sono le cinque e mezzo, ma il flusso delle persone è ancora molto incespicante. Fa passare le donne, gli anziani, blocca una persona con un collare di gesso chiaramente in sofferenza, e lascia fermi schiacciati al tornello gli uomini che incalzano. Rassegnati. In balia del suo colpo d’occhio, del suo umore. Chiediamo di farli passare, don Mario chiede spiegazioni e la invita ad “essere buona”, ma la soldatessa è più preoccupata delle nostre telecamere, delle macchine fotografiche e dei pochi flash che si è lasciata scappare.

Passiamo oltre. Sono le sei passate. Arriviamo al controllo magnetico ed oculare, più snello perché ci siamo lasciati la massa alle spalle. I soldati parlano al telefono, mentre fanno i controlli, svogliati ed annoiati. Questo controllo ossessivo è un lavoro di una ripetitività deprimente. Non hanno fretta, parlano al telefono, dei fatti loro. La fretta l’hanno gli operai, che alla fine escono in territorio di Israele e corrono come pazzi verso gli autobus, i taxi – ma quanto spendono ogni mese di taxi i lavoratori palestinesi? - i mezzi di fortuna pronti a condurli al loro posto di lavoro.

Questi ce l’hanno fatta. Son saliti. Via per una giornata intera di lavoro, magari sulle impalcature, in operazioni difficili. Noi torniamo indietro, da dove siamo partiti. La fila è lunga ancora da questa parte del muro. Gente nuova in attesa. Lavorare stanca. Vivere sotto occupazione, ancora di più.

Nicoletta Dentico

Nessun commento:

Posta un commento