sabato 17 ottobre 2009

Da Gerusalemme Stand Up contro la povertà


Sulle Rive del Mar Morto, a Gerico, nel luogo più profondo del mondo (a -240 m sotto il libello del mare) ieri, 16 ottobre 2009, i Quattrocento italiani venuti in Medio Oriente per la Marcia per la pace a Gerusalemme hanno fatto Stand Up. In quattrocento si sono alzati in piedi per dire stop alla povertà.

Gli ultimi dati sulla povertà, ha ricordato Flavio Lotti, coordinatore nazionale della Tavola della pace, nel mondo sono allarmanti: 963 milioni di persone nel mondo vivono in condizioni di povertà; ogni cinque secondi un bambino muore di fame; ad oggi sono oltre 700 milioni i lavoratori informali che vivono con meno di 1,25 dollari al giorno e circa 1.200.000 miliardi con meno di due dollari al giorno; senza contratto di lavoro nè tutele sociali (nel 2020, due terzi della popolazione attiva mondiale potrebbe trovarsi a lavorare in queste condizioni).

Per queste ragioni ieri quattrocento italiani si sono alzati in piedi per la mobilitazione mondiale contro la povertà e i cambiamenti climatici "Stand Up! Take Action!" promossa dalla Campagna del Millennio delle Nazioni Unite insieme a Caritas Italiana, WWF Italia, Uisp con il supporto della Coalizione Italiana contro la povertà, Acli, Agesci, Amici dei Popoli, Coordinamento Enti Locali per la pace e i diritti umani, Rufa, Isfci, Lega Calcio, Msn, Orchestra Sinfonica di Roma con il patrocinio del Coni, Segretariato Sociale Rai, Mediafriends Onlus e numerosi enti locali italiani.

di Floriana Lenti
www.standupitalia.it
www.campagnadelmillenio.it

Ultima Pagina


Domani parto, oggi è l’ultimo giorno di questa mia esperienza in Israele-Palestina. È strano, sembra di essere qui da mesi invece che da “solo” una settimana.

Oggi abbiamo fatto un resoconto della settimana, e visitato Gerico.

Continuano per tutta la giornata a tornarmi in mente dei piccoli flash di Gaza. In particolare una ragazza, Nasha. Vive in una baracca fatta di macerie e lamiere, ed è bellissima. Rappresenta per me la bellezza di Gaza, immersa in una distruzione e una desolazione infinita. Ma rimane comunque bellissima. Quasi irreale, come gli enormi fiori rossi che ogni tanto spuntano da una distesa di pietre. La vita che spunta dalla morte.

Tornare alla mia routine a Verona non sarà facile.

A Betlemme ho visto un murales , uno del tanti che sono stati fatti sul muro forse per renderlo meno oppressivo e “freddo”. Riassume il senso per cui sono qua, il senso per cui più di 400 Italiani sono andati in Palestina.

È una colomba, cioè la pace, minacciata da un fucile che ha il mirino puntato sul suo petto. Rappresenta la pace che è ormai praticamente sconfitta. Ma a questa colomba è stato disegnato un giubbotto antiproiettili. C’è ancora speranza.




Ilo Steffenoni

Lavorare stanca: la fila mattutina al check-point di Betlemme


La fatica di ogni giorno comincia ben presto per gli operai e gli impiegati palestinesi che lavorano all’interno dello stato di Israele. Alle quattro del mattino, quando arriviamo in un piccolo gruppo al check-point di Betlemme, sono già numerosissimi, in code più o meno organizzate. Già incessante è il viavai di taxi che dai paesi della Cisgiordania, e soprattutto dalla città di Hebron, fanno confluire qui - il punto di passaggio in Israele più vicino a Gerusalemme - i lavoratori arabi. C’è brulicar di vita intorno a loro. Il carretto con il pane caldo e profumatissimo che si aggira senza sosta, per raggiungere le file già formate e portare un po’ di sollievo, e distrazione alla noia dell’attesa, a quanti sono arrivati qui per primi. Le bancarelle accolgono gli uomini che sfilano dai taxi con proposte di bibite calde, polpette di carne per la giornata, e copiosità di sigarette, facili compagne di ogni sottrazione di tempo. I cancelli aprono alle cinque del mattino.

Gli uomini attendono.
Alcuni nel silenzio del forzato risveglio. Altri parlottano fra di loro, in piccoli gruppetti. Una manciata di giovani si è disposta per la preghiera del mattino, pronta a ricevere la prima voce del muezzin. Man mano che si avanza lungo il muro che a Betlemme separa i due territori e spezza per molti la fattibilità stessa dei due stati a lungo evocata dalla comunità internazionale, la fila si restringe in un passaggio angusto di reticolati e barriere. Su cartoni calpestati e sporchi, allineati uno accanto all’altro, dormono come possono quelli che chissà a che ora sono finiti qui, in gabbia.

Questa scena quotidiana
è il risultato dell’alto livello di disoccupazione nei territori occupati, a fronte di salari lievemente più alti pagati in Israele rispetto alla Cisgiordania. D’altra parte, i palestinesi sono una forza lavoro a basso costo assai conveniente per lo stato di Israele: prima del processo di pace di Oslo, oltre un terzo della forza lavoro dei territori occupati trovava impiego in Israele, per lo più nel fiorente settore edilizio. Con la politica della chiusura e della separazione inaugurata da Rabin e poi istituzionalizzata con l’accordo di Oslo, il numero dei lavoratori palestinesi dentro lo stato di Israele è precipitato dai 180.000 occupati nel 1987 (inizio della prima Intifada) agli attuali 35.000, soggetti a restrizioni sempre più incalzanti. Ottenere un permesso di lavoro in Israele è una corsa ad ostacoli burocratica che non in molti riescono a superare. Gli uomini palestinesi che ne fanno richiesta devono essere sposati con figli ed avere più di 35 anni (un limite inferiore a 25 anni è eccezionalmente previsto per alcune industrie), avere una carta magnetica ed una richiesta da un datore di lavoro. Anche chi soddisfa queste condizioni però non ha garanzie di trovare impiego.

Chi alla fine il permesso ce l’ha, entra nel giro estenuante dell’arrivarci, al lavoro, ogni mattina. Una marcia lenta e inerziale della rassegnazione. Tornelli che si aprono con il contagocce, rischi di rimanerci schiacciato. Esibizioni di carte, ed impronte di mani, le stesse ruvide e usurate di tutte le mattine. Occhi che devono fissare dispositivi per il controllo della retina. Il tutto appare un gioco specioso. Una concessione calata dall’alto di una forza occupante che la militarizzazione non la impone più con i carri armati, come accadeva venti anni fa, ma con un uso ferocemente asettico della burocrazia, umiliante, passivizzante.

I palestinesi lo hanno capito che non esistono vie d’uscita. La poca grinta che c’è va usata per non essere topi, per mantenere la dignità che serve a pregare la mattina, per non dare segni di cedimento, chè sarebbe fatale, per restare allerta. Si accalcano man mano che si avvicina l’ora dentro le gabbie, sempre più stipati. Le poche donne che arrivano anch’esse presto per far la fila, camminano raso rete nello spazio che gli uomini lasciano loro cavallerescamente, per farle andare avanti. Provo a mettermi nei loro panni, e non mi piacerebbe affatto sottostare ogni mattina a questo struscio di corpi solo per andare al lavoro. Penso che in Italia una trafila del genere implicherebbe dinamiche palpatorie insopportabili. Qui tutto è più rispettoso, pur nel calore, nella sporcizia, nella polvere, nella stanchezza di stare in piedi che si accumula ancor prima di cominciare la giornata.

Prima delle cinque, tanto per far sfiatare la folla, il varco si apre improvvisamente per qualche secondo, e allora la calca corre veloce in avanti, nel poco spazio che c’è. Spesso succede l’inevitabile, qualcuno cade e si fa male. Molti uomini si arrampicano sulle reti, usano gli interstizi fra i fili di ferro per far passare i loro corpi, sospesi sopra le teste di decine di altri che non obiettano. C’è molta pazienza nei lavoratori che avanzano passo dopo passo, nessuna reazione verso chi fa il furbo. Vien da pensare che in Italia ci sarebbe giungla di rabbia, sgomitare isterico, vocio di insulti. Pugni. Qui no. Qui allerta di corsa in avanti, così che qualche decina di loro ce la fa a superare la prima barriera. Qui c’è la resilienza degli oppressi.

Siamo anche noi in fila con loro. Fatichiamo a comunicare perché tutti parlano l’arabo, e solo qualcuno mastica poche frasi in inglese. Ci guardano perché abbiamo le telecamere, non ci sono abituati, i giornalisti non vengono a raccontare queste storie di ordinaria occupazione. Ci sono invece alcuni rappresentanti di un’organizzazione internazionale evangelica che fa monitoraggio sulle procedure di controllo. Spesso le alzatacce le fanno le volontarie di Machsom Watch, una realtà di donne israeliane che a centinaia tengono sott’occhio il comportamento dei loro soldati nei confronti dei palestinesi. Una delle molte schegge di società israeliana che difende ciò che resta della dignità morale di un popolo.

Anche noi passiamo, il secondo tornello, con la soldatessa giovanissima che deve sbrigarsela da sola, tutta questa massa di uomini. Sono le cinque e mezzo, ma il flusso delle persone è ancora molto incespicante. Fa passare le donne, gli anziani, blocca una persona con un collare di gesso chiaramente in sofferenza, e lascia fermi schiacciati al tornello gli uomini che incalzano. Rassegnati. In balia del suo colpo d’occhio, del suo umore. Chiediamo di farli passare, don Mario chiede spiegazioni e la invita ad “essere buona”, ma la soldatessa è più preoccupata delle nostre telecamere, delle macchine fotografiche e dei pochi flash che si è lasciata scappare.

Passiamo oltre. Sono le sei passate. Arriviamo al controllo magnetico ed oculare, più snello perché ci siamo lasciati la massa alle spalle. I soldati parlano al telefono, mentre fanno i controlli, svogliati ed annoiati. Questo controllo ossessivo è un lavoro di una ripetitività deprimente. Non hanno fretta, parlano al telefono, dei fatti loro. La fretta l’hanno gli operai, che alla fine escono in territorio di Israele e corrono come pazzi verso gli autobus, i taxi – ma quanto spendono ogni mese di taxi i lavoratori palestinesi? - i mezzi di fortuna pronti a condurli al loro posto di lavoro.

Questi ce l’hanno fatta. Son saliti. Via per una giornata intera di lavoro, magari sulle impalcature, in operazioni difficili. Noi torniamo indietro, da dove siamo partiti. La fila è lunga ancora da questa parte del muro. Gente nuova in attesa. Lavorare stanca. Vivere sotto occupazione, ancora di più.

Nicoletta Dentico

Emozioni e pregiudizi: il filtro dell’ascolto


Sederot/Gerusalemme. 3a parte
Emozioni e pregiudizi: il filtro dell’ascolto

Le giornate di questa marcia dei 400 si rincorrono, si incastrano una nell’altra, si legittimano reciprocamente. L’ascolto continua e rende tutto molto più chiaro e molto più complesso. Gli strati di odio, vendetta, dolore, disillusione si alternano con quelli della speranza, della fiducia, dell' amore, della tenacia.

A parlarci in queste giornate sono essere umani e ci tengono a sottolinearlo tutti, palestinesi e israeliani. Ci chiedono di non partire dal passato, di non pensare a soluzioni fondate su necessità di riscatto e di collaborare con la mente libera da pregiudizi e il cuore pronto alla comprensione.

Da una parte e dall’altra di questa terra, divisa da anni di recriminazioni, lotte e poteri lontani dalla gente e dal loro dolore, ci sono persone meravigliose, che si impegnano – anche pagando un caro prezzo personale – nella ricerca di una risoluzione definitiva e radicata del conflitto.
"Perché - come dice Ali, un palestinese cui hanno ucciso il fratello ad un check-point, questa guerra non la chiuderemo con un trattato. La gente deve far pace con se stessa e con quelli che considera i suoi nemici: e non stiamo parlando di un percorso, ma di una svolta. Non ci sono condizioni per la pace, la pace é la condizione".

La loro lotta non è fatta di confronti e pesi dei dolori, delle morti, delle violenze. Sono impegnati tutti – Other Voice, i Combatants for Peace, Machsom Watch, Icahd, Parents Circle e tanti altri - tutti a decostruire le ragioni di un conflitto che troppo spesso guarda indietro per trovare ragioni del suo proseguimento.

E di ragioni ne troverebbero anche loro, a iosa. Bassam è un ex-combattente palestinese. A 17 anni è finito nelle carceri israeliane e ne è uscito solo 7 anni dopo. Con in testa e nel cuore una decisione: abbandonare la lotta armata, rinunciare alla vendetta e cercare un’alternativa.

Avevo imparato solo a colpire il nemico, ma ho scoperto che si tratta di esseri umani e ho deciso di convincerli che lo sono anch'io". Bassam parla con frasi asciutte – come asciutti devono essere i suoi occhi dopo aver perso la figlia di 10 anni nel gennaio 2007 uccisa da un proiettile israeliano mentre usciva da scuola. Solo un anno prima Bassam era uscito di nuovo dal carcere dove era finito per essere stato nella zona est di Gerusalemme senza permesso. Si trovava – illegalmente secondo la polizia che lo ha arrestato – in casa della famiglia della moglie che a causa del muro é rimasta in zona israeliana. "Non abbiamo messo via la armi ma la brutalità. In tanti anni di violenza abbiamo raccolto solo più vittime. Basta. Non vogliamo morire per niente. È difficile spiegare la mia scelta alla famiglia, agli amici. Ma non ci prendiamo in giro; non si va in giro ad ammazzare gente in nome degli amici”

Bassam, Itamar e tanti altri ex-soldati o prigionieri di guerra vogliono essere il cambiamento. "Quando andiamo in giro a parlare con la gente non raccogliamo critiche o contrasti convincenti: siamo la prova che é possibile, non siamo uno slogan. L'odio é frutto di propaganda o di irrazionalità. Bisogna dimostrare che ci si può sedere insieme e parlare" dicono i combatants for peace. Tabula rasa e ripartiamo dagli esseri umani, dai diritti di due popoli di esistere, di vivere in pace, di essere vicini e integrati.
Itamar è un ex-soldato israeliano. Ha scelto di deporre le armi e non risponde alla chiamata di un mese all’anno per partire con i riservisti dell’esercito. "La società ci ha armato dandoci un enorme potere. Ora lo vogliamo usare per ottenere una pace giusta". Giusta. Nel nome dei diritti umani.

Paola Ferrara

Curiosità


Oggi ero curiosa....
accendo la radio per sentire se il caro adorato Di Bella stasera ci sarà,
mannaggia a loro che l'han fatto fuori!
Poi però, mentre chiudevo i libri per la Tesi, ecco la voce di Laura Troìa
che parla da Betlemme.Lì, lei è lì!
E le sue sono parole mie, quelle con cui cerco di convincere che
no nessuno può capire se non si va laggiù.
Io conosco Betlemme, io conosco Israele e la Palestina.
Tempo fa ho fatto la scelta, da storica, di fare una Tesi sulla manipolazione mediatica riguardo il conflitto israelopalestinese, e ho cominciato a cercare, a trovare, a studiare.
Ma niente mi dava la certezza di sapere veramente.
Io avevo bisogno di realtà, di odori, sensazioni.
E così ho cercato e trovato un modo più vicino alla popolazione....
sono partita da scout (lo sarò ancora per pochi gg) con un gruppo di ragazzi e adulti scout e non da tutta Italia. Verso Israele. Ognuno con il proprio percorso. Io storico - politico, molti religioso. E lì nulla di turistico.

Abbiamo dormito per terra a Gerico martellati dai richiami della Moschea in pieno Ramadan,in un vecchio orfanatrofio a Gerusalemme, nel Kibbutz Lavi,visitato luoghi, incontrato Padre Pizzaballa, così come il Rabbino Vito Hanab.

Abbiamo incontrato suor Donatella, una donna meravigliosa che da cinque anni è a capo del Caritas Baby Hospital unico luogo cui portare i bambini malati di Betlemme e dintorni. Abbiamo incontrato i ragazzi dell'Univ di Betlemme. Mi hanno tirato pietre sui polpacci perché sul mio fazzolettone c'era una croce, mi hanno sputato sui piedi camminando lungo il quartiere musulmano,e due notti, due preziosi giorni, li ho passati ospite di una splendida famiglia palestinese di religione cristiana,minoranza nella minoranza, una realtà soffocante cui pochissimi pensano.

Sono passata lungo molti check point, con ragazzini di poco più di dicotto anni che ti obbligano a toglierti gli occhiali
perché sul passaporto non li hai. Quaranta minuti all'areoporto, perché aprendo la valigia hanno visto un libro di Grossman quindi vià giù
con domande a trabocchetto.

Tornata , pochi gg fa, ti rendi conto che quello è il luogo delle scelte, lì dove niente è scelto, dove tutto è in ballo, conteso e precario. Hai fatto la scelta intima di seguire una religione, certo, ma quella è tua, e non ne parli, perché non te l'aspettavi e non è necessario farlo. Torni con tanti dubbi in mente.

Poi vedi Suor Donatella che ogni venerdì, prima dell'inizio del Sabato, pregare di fronte al Chack point di
Betlemme verso Gerusalemme, perché il muro crolli, perché ha visto troppi bambini morire in attesa del lasciapassare verso Gerusalemme. Vedì i bambini che ti lanciano le pietre, e magari non sanno nemmeno cosa vuol dire croce, cristiano. Vedì i coloni, che hai imparato a riconoscere tra mille, che pretendono, vogliono.

Vedi la famiglia meravigliosa con cui hai vissuto, che non ti parla del presente, che alle domande che fai rispondono con altre risposte. Vedi una democrazia che in Palestina non c'è , democrazia " occidentale" che odori ovunque in territorio Israeliano.
E così sono tornata..... non ci sno più gli oppressi e gli oppressori.
Ognuno vuole, nessuno parla.
La sensazione di essere in guerra c'è, molto spesso. E la voglia di tornare si concretizza sempre di più.

Quindi grazie a voi e a Laura Troìa.
Io spero che le sue parole abbiano suscitato in molti delle domande, la volontà di capire e di andare
in un Paese meraviglioso, bellissimo, affascinante.

Vi lascio un link you tube..... che in piccolissimo parla del mio viaggio.....

www.youtube.com/watch?v=Rsv_GDW4zlA


A presto, Laura