lunedì 12 ottobre 2009

Storie di terre rubate al futuro – Jenin – 1° giorno



Nel programma è stato chiamato il giorno dell’ascolto dei palestinesi. E così mi sono messa all’ascolto. “Da qui non andremo via. Anche se dovessimo mangiare foglie d’albero. Non sappiamo dove andare, questa è casa nostra” Mahamed è il coordinatore delle scuole del distretto di Jenin. Il villaggio dove lo abbiamo incontrato è At Tayba, o Teiyiba, uno dei tanti che da 3 anni si trova a ridosso del muro e che dal muro è stato diviso. “Avevamo appena ultimato il campo di calcio, unico spazio per i ragazzi di qui. E poi il muro se l’è portato via, lasciandolo dall’altra parte” dice uno dei maestri che il muro lo guarda dalle aule. Hanno dovuto costruire un muro anche loro, intorno alla scuola, per evitare che i soldati israeliani continuassero a consumare la loro prepotenza gratuita sui ragazzi. Entravano senza chiedere permesso per bere e molestavano.

È un muro grezzo, grigio, non alto quanto quello israeliano che qui ha le sembianze del filo spinato. Già perché il muro può essere di cemento o di filo spinato con telecamere. In entrambi i casi invalicabile. Più su, in cima alla collina di fronte a quella della scuola, spiccano le case bianche dai tetti rossi dei coloni, i settlements. E di fianco, sulla stessa collina un altro pezzo del villaggio di At Tayba che il muro ha messo di là. Il muro è in basso. Costeggiato da una strada ad uso esclusivamente militare. Il campo di calcio è laggiù: si riconoscono solo le due porte bianche che svettano tra le erbacce che lo hanno invaso. I bambini saltano, giocano e ci guardano curiosi, Qualcuno piange. I ragazzi invece ci approcciano con qualche parola in inglese. Uno mi dice “my country is beautiful”. Gli dico che lo penso anch’io, ma quello che non gli dico è che vorrei abbracciarlo perché bello è lui con l’amore per il suo paese così disperato.

Ad Abla, la responsabile di ECRC, una ong palestinese che si occupa da più di 20 anni di infanzia, chiediamo come vivono i bambini questa situazione. Abla ha un bel sorriso, ma quando si parla di “politica” negli occhi le lampeggia un’espressione mista che sembra dire: “come faccio a spiegartelo” ma anche: “non l’hai capito ancora?” E invece lo spiega molto bene e con poche parole. “Sono cresciuta con il mio paese occupato. I miei figli stanno crescendo sotto l’occupazione. A loro che mi chiedono com’è il mare io provo a spiegare l’immensità della distesa d’acqua cosicché quando, dopo intense piogge, si forma un lago vicino casa mi chiedono se quello è il mare. Poi mi chiedono anche perché non ci andiamo a vederlo, il mare e io rispondo che è proibito. E quando mi chiedono perché non vediamo mai la mia famiglia che vive a Nazareth io devo di nuovo rispondere che è proibito”.

Il muro ha diviso le terre senza rispettare proprietà o servitù di passaggio ma ha anche diviso famiglie. Ci raccontano che durante le loro festività i palestinesi raramente posso ricongiungersi con i familiari: servono permessi difficili da ottenere, soggetti come sono a imprevedibili e lunghi criteri di emissione. E’ una guerra di nervi vista da questo punto di vista, ma i nervi più logori sembrano quelli dei ragazzi ai checkpoint, costretti a vestirsi da cattivi a 18 anni con mitra in spalla e giubbotto antiproiettile.

Il governatore di Jenin, Kaddoura Moussa, è un uomo alto e robusto. Entra nella sala già gremita di italiani e si fa silenzio. Ci da il benvenuto, comincia a parlare, il traduttore va per approssimazione, si capisce dall’italiano stentato che usa, sicuramente non riesce a trasmetterci le sfumature del discorso. Dice cose interessanti ma con freddezza, come chi è abituato a fare comizi. Poi, rispondendo a una domanda si lascia scappare che è lui stesso un profugo, è nato a Haifa, è stato per 12 anni nelle prigioni israeliane. Si rilassa, gli occhi si addolciscono, non sembra più così robusto. Qualcuno gli chiede del muro tedesco, caduto 20 anni fa, che sembra anacronistico che se ne costruisca un altro. “Sono due muri molto diversi. Ma quel muro è stato tirato giù da anni di cultura di pace, di costruzione di scuole, di iniziative e progetti innovativi. Anche qui dobbiamo costruire una cultura di pace per tirarlo giù, non lo farà la politica”. Sono parole alle quali è bello credere. E’ il motivo per cui siamo qui. Per costruire senza dimenticare. Per prendersi la responsabilità di esserci e di contare.

Paola Ferrara

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